È nato il figlio di Adriana Smith, donna dello Stato americano della Georgia che, dopo la morte cerebrale è stata tenuta attaccata alle macchine per varie settimane per permettere al feto di raggiungere uno stadio di sviluppo sufficiente a garantire una minima possibilità di sopravvivenza. L’ospedale, infatti, riteneva di non poter lasciare morire il feto in virtù delle leggi sull’aborto dello Stato, interpretazione da alcuni condivisa e da altri no.
Poco manca ai tre anni di Dobbs e ne parleremo meglio in un articolo tra qualche giorno, ma da qualsiasi punto di vista questa situazione è assurda: che uno stato tuteli un embrione o un feto da un’aggressione diretta o indiretta come l’aborto procurato può andare anche bene, ma qui parliamo di una morte naturale: la “morte cerebrale” come concetto esiste solo perché le nostre capacità di rianimazione sono eccellenti, ma che se muore la madre tristemente muore anche il bambino che è dentro di lei è legge di natura. Si può fare il possibile per evitarlo, come un cesareo d’urgenza, ma usare la donna come incubatrice per settimane inizia a sembrare l’impossibile, specie date le scarse probabilità di successo.
Se le leggi sull’aborto talvolta vanno a depersonalizzare il feto, leggi del genere vanno invece a depersonalizzare la donna, a cui non viene data nemmeno la possibilità di una morte serena, per essere usata appunto come mera incubatrice biologica. Uno stato che d’imperio prende questa decisione a me fa paura.
Contemporaneamente, non è solo un problema di stato: prima di Dobbs vi sono stati almeno 35 casi dove, su richiesta dei parenti, donne sono state tenute “in vita” per permettere al feto di nascere. D’altronde può anche sembrare l’opzione migliore, evitare che una morte diventi due morti usando la scienza medica moderna.
Da un punto di vista bioetico laico né la donna morta né il feto sono soggetti, ma oggetti, i cui diritti esistono in relazione solo a quelli di altre persone: sarebbero poche le questioni che sorgono se i parenti desiderassero utilizzare la donna a tale scopo, per quanto non possa essergli imposto come accaduto.
Dal mio punto di vista etico, sicuramente influenzato dalla mia morale personale e dalla religione (ma come lo è anche quello di vari sistemi giuridici, che infatti a questi due oggetti riconoscono uno status particolare in virtù della loro umanità, “futura” o “passata”), entrambi hanno uno status di persona umana e bisogna fare un bilanciamento degli interessi in favore della loro dignità.
Se parliamo di una donna all’ottavo mese è ragionevole tenerla qualche ora in vita artificialmente per permettere al ginecologo di arrivare e fare un cesareo? Io penso di sì. Anzi, sembra quasi l’ultimo atto d’amore di una madre nei riguardi del proprio figlio.
Ma qui parliamo di una sorta di esperimento scientifico: estendere lungamente uno stato innaturale tra la vita e la morte per vedere se riesci a far vivere il bambino. Mi sembra un qualcosa di profondamente irrispettoso nei riguardi della dignità umana, che non cessa con la funzione cerebrale, che può essere tollerato se è una richiesta della persona o dei suoi amati, ma certamente non imposto dall’alto.
Una legge sull’aborto che fa venire dubbi del genere è, mi sia concesso dirlo, scritta con il culo. Perché per quanto alcuni temi trattati riguardino anche il dibattito etico sull’aborto si tratta di tutt’altro caso: una morte naturale. Conseguenza triste di un’altra morte naturale.
Spero solo che il bambino ora possa stare bene, e certo, vedere un bambino vivo ci fa tanta gioia, sicuro più che pensare alla sua morte a seguito della morte materna. Non possiamo però dimenticare le circostanze ed è una discussione che dobbiamo fare: soprattutto, quando a prendere queste decisioni non è un caro del defunto, ma l’autorità pubblica.