Ormai è più che chiaro che sull’Italia incombe il possibile aumento dell’I.V.A. L’imposta sul valore aggiunto che si paga sui prodotti e servizi.
L’attivazione delle “clausole di salvaguardia” nel prossimo gennaio 2020 farebbe scattare l’aliquota intermedia dall’attuale 22 al 25,2% e quella ridotta dal 10 al 13%. Orbene, il confronto che ha avuto il governo italiano con l’Unione Europea in occasione dell’approvazione della legge di bilancio 2019 è stato incentrato, per lo più, su tali clausole. L’Italia, per evitare lo scatto dell’Iva nel 2019, avrebbe dovuto stanziare 12,5 miliardi.
Il Governo Conte ha sospeso l’attivazione delle clausole di salvaguardia ereditata dai Governi precedenti ( anch’essi sono ricorsi sempre alla “sterilizzazione” dell’attivazione) ma ha aggiunto 13,1 miliardi di euro per il prossimo biennio. E questo a garanzia del finanziamento delle due misure più rappresentative del contratto di governo giallo-blu, ossia “il reddito di cittadinanza” e “quota 100”. L’esecutivo Conte si trova, quindi, a dover recuperare un totale 51,9 miliardi nel biennio 2020-2021, perché oltre ai 23,1 miliardi del prossimo anno, dovrà trovarne altri 28,9 entro il 2021 per evitare un ulteriore aumento dell’aliquota Iva intermedia dal 25,2 al 26,5%.
Le clausole salvaguardia sono norme poste a tutela dei conti pubblici. Tecnicamente prevedono maggiori entrate per lo Stato attraverso l’aumento dell’imposta o un taglio delle spese. Aumenti o tagli che però entrano in vigore negli anni successivi. Se i Governi recuperano il gettito previsto in altri modi, ad esempio con privatizzazioni o investimenti sui mercati finanziari, le clausole non si attivano e si scongiura l’aumento delle imposte o il taglio delle spese. In altri termini, le clausole di salvaguardia impongono che i conti pubblici tornino e che vengano ciclicamente previsti rincari automatici a copertura di spese pubbliche già decise per poi provare a scongiurarne il rischio cercando alternative. Le clausole hanno mutato profondamente la loro funzione. Da strumenti di finanza pubblica volti a ridurre il deficit strutturale, le clausole sono ormai utilizzate per rimandare decisioni impopolari scaricando la responsabilità delle stesse sui governi successivi.
Il ministro dell’economia Tria riferisce che l’aumento dell’Iva è molto probabile tanto che all’interno dell’ultimo DEF l’aumento delle aliquote è stato annunciato in maniera chiara sia nel quadro tendenziale sia in quello programmatico. I vicepremier Salvini e Di Maio, tuttavia, minimizzano. Si tratta di una decisione grave, che il governo continua a rinviare e che, alla vigilia delle elezioni europee, pende come una spada di Damocle più sul futuro dei cittadini che su quella del governo in quanto l’aumento dell’IVA comporta l’aumento delle tasse.
Il Sole24 ore ha conteggiato un aumento di una spesa per 538 € per le famiglie mentre i più tartassati saranno i liberi professionisti ed imprenditori lombardi e trentini sui quali graverà un aumento, rispettivamente, di 658 € e di 654 €. Molto pesante sarebbe l’impatto anche in Emilia-Romagna ed in Veneto mentre i meno colpiti da questo aumento dell’imposta sarebbero la Calabria e la Campania che subirebbero una crescita di soli 2 punti percentuale di spesa sul bilancio familiare annuale. Istat e Banca d’Italia, tuttavia, ritengono che l’effetto depressivo sui consumi sarà solo dello 0,2%; il Codacons dello 0,7%. Coldiretti ha effettuato alcune rilevazioni su dati ISMEA: “il pericolo dell’aumento Iva riguarda beni di prima necessità come carne, pesce, yogurt, riso, miele zucchero con aliquota al 10%; il vino la birra al 22%”. Di fatto sono elementi che rappresentano componenti importanti nei consumi delle famiglie e se la spesa alimentare risulta la principale voce di budget delle famiglie dopo la casa tutto ciò influirebbe negativamente sulla ripresa dell’economia italiana; comprimendo di conseguenza abitudini di consumo e riflettendosi anche su altri campi come quella del lavoro.
Codacons riferisce che non solo i generi alimentari subiranno un inevitabile rincaro ma anche abbigliamento, medicinali, prodotti farmaceutici, hobby e bollette ossia tutti beni e servizi di cui usufruiamo quotidianamente.Ma se non dovessero attivarsi queste clausole? Secondo il quadro programmatico contenuto nel DEF, il rapporto deficit/PIL (ossia l’indebitamento netto) sarebbe del 3,4% nel 2020, del 3,3% nel 2021 e del 3% nel 2022. Oltre a questo, si attiverebbe una procedura di infrazione europea nei confronti dell’Italia. Il ministro dell’economia Tria è sempre stato favorevole a far scattare le clausole di salvaguardia. In un’intervista nel giugno 2018 sosteneva che tale evenienza avrebbe potuto servire per reperire le risorse necessarie per finanziare la flat tax.
La verità è che l’Italia è un Paese allo sbando in recessione tecnica, con uno spread non invidiabile e di consumi al palo. L’aver adottato le misure della quota 100 e del reddito di cittadinanza a sicuro danno del Nord produttivo ha inasprito il rischio concreto di diminuzione dei redditi delle famiglie e della capacità di investimento delle aziende. Di conseguenza potrebbe essere che il governo giochi in questo momento di campagna elettorale per le elezioni europee sulle spalle dei cittadini italiani ma abbia già deciso l’aumento dell’imposta sui consumi dando come giustificativo la compensazione attraverso la riduzione del peso fiscale su stipendi e redditi vari.
In definitiva, molti potrebbero accettare un aumento dell’Iva con una imposizione fiscale maggiore attraverso lo specchietto per le allodole di un ipotetico riequilibrio del peso fiscale delle imposte dirette e di quelle indirette.
In ogni caso, di tutta evidenza mala tempora currunt.