No, non è il coronavirus a mietere vittime in questo sciagurato paese. Ci sono nuove patologie ben più insidiose e dannose. Peraltro apparentemente innocue. Una di queste, per me quasi letale si chiama semplicemente: “statistica”! Già, perché proprio leggere, come mi è capitato, lo stesso giorno e a distanza di qualche secondo due tabelle statistiche pubblicate, ha provocato in me gli effetti devastanti delle forme più gravi di depressione. Nella prima l’Italia si classifica all’ultimo posto, ma per “fortuna” nella seconda invece vince alla grande piazzandosi in prima posizione. In un caso una tabella riporta le stime della commissione europea sulle prospettive di crescita degli stati membri per il 2020 nella zona euro. La seconda dello studio Ambrosetti riporta una parametrazione fra gli indici di pressione fiscale in Europa. Provate a immaginare i primati in positivo e in negativo in quale ordine si collochino? Ebbene sì. Avete indovinato. Questo è il paese con la minor crescita economica d’Europa, ma in assoluto quello con la pressione fiscale più alta. In sostanza l’Italia non è un paese per imprese. Fare impresa qua rasenta il proibitivo.
Nello stesso giorno in cui ho letto queste tabelle, peggiorando il mio stato di salute mentale, ho parlato casualmente con due piccoli imprenditori. Due artigiani per la precisione. Il primo di loro dopo aver affrontato la scorsa settimana l’ultimo incomprensibile (e dal suo punto di vista iniquo) F24. Ha deciso che cesserà l’attività. Ha “solo” 50 anni e lavora da almeno 34, sempre in proprio. Ha cambiato un paio di mestieri ma mai avrebbe pensato che un giorno avrebbe potuto fare una scelta del genere. Chiude la partita Iva e andrà ad ingrossare le fila di coloro che cercano il posto sicuro.
Dice che confida in un posto pubblico ma che essendo del Nord sa bene che sarà durissima. E quindi a 50 anni accetterà di fare l’operaio da un idraulico che fino a ieri era un concorrente, ma che essendo anziano gli proporne un contratto a tempo determinato. Meglio che niente. Il secondo e’ il titolare di una piccola azienda di installatori elettromeccanici. Pochi dipendenti e poche prospettive. Fino a qualche anno fa problemi di lavoro zero. Si lavorava anche nei fine settimana e tra bianco e nera stavano bene tutti. Operai compresi. Poi è arrivata la grande crisi del 2008 e il mondo è cambiato. Da allora dice che ha la sensazione netta che la pressione fiscale, insieme a inutili forme di pressione indebita (controllo di enti di varia natura, accertamenti del fisco, etc.) siano diventate insopportabili. Si sente accerchiato. A questo, sempre a suo avviso, norme ancora più stringenti anche di tipo sindacale che tutelano solo i dipendenti e non gli imprenditori. Insomma non ne può più. Ha 54 anni e da tempo sta cercando di vendere l’aziendina sperando di fare l’operaio a casa sua. Ma purtroppo dice di non trovare nessuno. E introduce un nuovo tema: “appena raggiungo quota cento mollo tutto e me ne frego”. Il mio umore continua a peggiorare.
A quel punto un sacco di dubbi del recente passato riemergono nel mio ragionamento: vuoi vedere che regalare 11 miliardi di risorse di chi lavora e produce a chi non lavora e non produce un tubo, ammantandolo di nobiltà e definendo questa operazione pomposamente “reddito di cittadinanza”, si sta rivelando come un boomerang pazzesco? E quota 100? Regalare pensioni anticipate a gente che non ne ha la necessità in modo acritico ha provocato qualche danno? Il non aver distinto in alcun modo la qualità del lavoro, concedendo un diritto ad uscire prima dal mondo della occupazione solo a chi svolge lavori usuranti, sta causando una fuga di massa da parte di chi può. Anche questo non era prevedibile? E continuare ad aumentare il numero e il costo dei dipendenti pubblici può forse favorire la crescita dell’economia e la diminuzione della pressione fiscale? In questo paese a queste condizioni si può davvero continuare a fare impresa? Purtroppo i dati delle statistiche impietosì ci dicono di no. E la nuova sindrome mi assale.