Il manifesto politico del Roma Pride, sul tema del conflitto israelo-palestinese, è abbastanza moderato e condivisibile:
Condanniamo con forza la strage in corso a Gaza, perpetrata dal governo israeliano, che sta provocando innumerevoli vittime innocenti tra la popolazione civile palestinese e sembra puntare all’annientamento di un popolo. Chiediamo il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi israeliani e il rispetto delle condizioni di tregua, la protezione dei diritti umani, la ripresa delle trattative di pace, basate sulla soluzione di due popoli, due Stati
Eppure, il cuore della comunità LGBT marciante romana sembra decisamente stare verso uno dei due lati del conflitto, tra la madrina del Pride che sventola un bandierone palestinese e il corteo che s’è fermato per un minuto di silenzio urlando poi “Palestina Libera”: anzi, c’è stata una grande polemica per la presenza di una piccola bandiera israeliana portata dai movimenti centristi europeisti. Secondo tanti, nemmeno andava ammessa.
Prima di tutto, non penso che ci sia un’incoerenza diretta tra il sostegno alla Palestina e l’essere LGBT. Se è vero che Hamas gli omosessuali li tortura (quando va bene) è anche vero che prima di essere omosessuali, eterosessuali, bisessuali o transessuali siamo umani, e umanamente ciò che Netanyahu sta combinando a Gaza è abbastanza difficile da sostenere anche per chi un bel repulisti mirato della Striscia lo vedrebbe di buon occhio. Inoltre, esiste anche la Cisgiordania, dove l’omosessualità è lecita, per quanto non particolarmente accettata socialmente.
Ma un conto è manifestare per Gaza, un conto è farlo a un Pride. Vedere in una manifestazione che dovrebbe parlare di diritto LGBT la bandiera di un territorio dove sono perseguitati fa abbastanza ridere, specie valutando che considerano il Papa poco meglio di Adolf Hitler per delle considerazioni ovvie sulla definizione di famiglia che vent’anni fa chiunque avrebbe condiviso: in sostanza, non è certamente spirito di amore cristiano per chi ti opprime a muoverli.
Le ingiustizie a questo mondo sono tante, talvolta anche confliggenti (nel mondo LGBT stesso basta vedere le tensioni tra L e T): sceglierne una sola vuol dire schierarsi, e scegliere proprio la Palestina è spesso legato a una malsana idea di internazionalità che ha trasformato il programma del pride da “vorremmo non essere discriminati, picchiati e vorremmo vedere le nostre unioni riconosciute” in voli pindarici che vanno dalla grassofobia alla “metamorfosi nell’amore”, che sembra il nome di un gruppo parrocchiale di invasati ma è, in realtà, uno degli slogan del pride ambrosiano.
Per dirla come un’immagine che ho visto sul web americano, la Palestina È la questione, perché metterebbe insieme colonialismo, razzismo, patriarcato, capitalismo e terrorismo ambientale, più tutta una sorta di intersezioni variegate come misoginia, supremazia bianca e mascolinità tossica. Datemi un Aulin.
In generale, non capisco perché dovrebbero esserci bandiere che non siano tra le centinaia di legate al mondo LGBT o di qualche comunità specifica. Se c’è un drappello di una qualche comunità straniera ben venga che si porti la sua bandiera, se c’è un gruppo di rifugiati idem, come han fatto talvolta alcuni ucraini, ma le bandiere tanto per? Qual è il pro di esporle ad una manifestazione per i diritti LGBT?
Ormai, diciamocelo, sono questioni di identity politics da primarie del centrosinistra: primarie del centrosinistra a cui però tutti, in qualche modo, dovremmo dare sostegno nel nome dei diritti. Almeno non dobbiamo pagare due euro…