“ Vale la pena chiarire che il liberismo (dottrina economica) invoca apertura del mercato e libera concorrenza ritenendo le attività economiche private il veicolo più efficace per la creazione della ricchezza. Demanda ad altri soggetti la sua ridistribuzione. Tali soggetti sono gli organi elettivi sperabilmente (dal punto di vista dei liberisti) di orientamento politico liberale (dottrina politica). Ne deriverebbe una filiera virtuosa che amplia la produzione di ricchezza e di conseguenza le risorse da destinare alla ridistribuzione.”
Il concetto non è mio ma di Luigi Einaudi, io mi limito a citarlo e a sottoscriverlo.
Si aggira da tempo il fantasma della degenerazione del sistema liberista sotto il titolo di “liberismo selvaggio”: secondo alcuni “studiosi” di economia e secondo tutte le frange che rimpiangono mitologici successi dell’economia di stato, l’occidente (e quindi anche l’Italia) è caduto nella trappola del liberismo selvaggio.
Restando alla superficie e alla sintesi, questo atteggiamento culturale viene da lontano, e in modi differenti, dalle cure da cavallo del marxismo ortodosso, poi dalla dottrina keynesiana e più di recente in Italia dell’operaismo sindacal/marxista, dall’egalitarismo politico del PCI, dall’operaismo cattolico.
Quest’ultimo ha scompaginato equilibri che sembravano cristallizzati nelle coscienze dei fedeli, poco ideologicizzati, anticomunisti nel dna del loro credo, indifesi politicamente: è stato facile espellere da ogni omelia o da ogni predica domenicale una allusione anche sommessa e di passaggio sulla parabola evangelica dei tre talenti, sostituita dal messaggio evangelico “è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che un ricco vada in Paradiso”: rivoluzione di classe indolore e poco consapevole enfatizzata dal Papa in carica.
L’insieme ha creato una grande diffidenza, fino a una diffusa ostilità, verso l’imprenditoria privata vista come animale predatorio, invece che impegno a creare ricchezza per sé e per gli altri ma a solo rischio proprio.
Osservando l’economia reale italiana e gli ibridi economici di ieri e di oggi, il liberismo (non solo quello “selvaggio” ma anche quello “domestico”) sembra un racconto onirico, incubo o sogno che sia, ma di fatto inesistente.
Nell’Italia afflitta dal “liberismo selvaggio” il 55% dell’economia è in mano pubblica, la residuale economia privata è soggetta ai controlli e ai pesi dei vari enti pubblici elencati in modo puntuale dalla benemerita CGIA di Mestre: mediamente ogni impresa italiana è soggetta a 122 controlli/anno (1 ogni 3 giorni) da parte 19 differenti soggetti pubblici. I controlli riguardano:
60 in materia di Sicurezza/Ambiente
30 in materia fiscale
21 in materia contrattualistica
11 in materia amministrativa.
Senza contare gli oneri fiscali e gli interventi della magistratura e dei vari TAR che da soli tendono a sovietizzare l’economia del nostro Paese (riuscendoci).
Il costo che ne deriva al sistema di impresa italiano è stimato in circa € 31 miliardi/anno e incide per oltre il 4% sui ricavi totali delle imprese.
Il quadro è regolamentato da 136.000 atti normativi (leggi, decreti, ordinanze ecc.ra)!
Per di più i territori economicamente deboli del sud Italia rispetto ai territori del Centro/nord sopportano un peso burocratico maggiore del 48% che va ad aggiungersi alle inefficienze strutturali di sistema (pubblico).
Per esempio: In Sicilia le corse/giorno dei treni sono 428, contro le 2396 in Lombardia.
A Firenze si direbbe: “grucciate agli zoppi!”.
Come liberismo selvaggio (o non) non c’è male!
In termini applicativi alla economia reale, per fare un paio di esempi, la spogliazione dei Riva ha ampliato i problemi dell’ILVA, valendosi dei deliri economici della signora Lezzi (curriculum: ragioniera e poi commessa per vent’anni nella vita privata, officiata ministro per il SUD dal M5S), del cinismo politico del magistrato in aspettativa Michele Emiliano (presidente della regione Puglia), di un pezzo di Procura pugliese che, in contrasto con un pezzo di quella milanese, ha dato e continua a dare un sostanzioso contributo. Alla fine il sorridente Conte, su suggerimento del M5S, ha cambiato le carte in tavola sottraendo dal contratto Mittal lo scudo per i reati penali pregressi (compiuti nel passato da altri soggetti) già concesso a tutti i Commissari governativi ILVA (e se è per questo anche ai vertici del costituendo MES) e alla fine dando ai soci Mittal una occasione unica per uscire dal contratto se questa era la loro intenzione. Chi li sostituirebbe? Lo Stato, visto che viviamo in tempi di liberismo selvaggio.
E che dire di Alitalia? Non ne ripeto la luminosa storia di impresa che da anni si misura col mercato del liberismo selvaggio, costando ai contribuenti già 14 miliardi di virtuosi contributi pubblici, ma non posso trattenermi dal riportare queste recenti dichiarazioni di Fabio Lazzerini (chief business officer di Alitalia): il costo del personale di Alitalia “non è così clamorosamente fuori dalla media delle altre compagnie. Il problema è che da dieci anni Alitalia ha perso ricavi per cui, non avendo toccato i costi, ha meno ricavi con cui coprire quei costi”.
Ma il signor Lazzarini di quale business è “chief officer”? L’assioma è lapalissiano: La società perde ricavi ma non adegua i costi, quindi genera fatali perdite. Sottintendendo che il costo del lavoro è una “variabile indipendente” delle componenti di costo aziendale.
Pensiero preso di sana pianta dalla CGIL di Luciano Lama (1978) che tuttavia mal si adatta ad una economia liberista (anche se non selvaggia) ma soprattutto è il contrario di una gestione minimamente virtuosa di un’impresa.
Sono solo due gli esempi che cito perché noti a (quasi) tutti i compaesani, ma ce ne sono centinaia di uguali anche se meno noti: in ballo c’è l’intera struttura produttiva del Paese.
Viene da chiedersi dove porterà l’atteggiamento anti impresa della maggioranza degli italiani: l’Unione Sovietica e tutti i suoi satelliti, come tutti i regimi odierni di varia credenza marxista, hanno enfatizzato la distribuzione di una ricchezza che non erano capaci a produrre, alla fine distribuivano e distribuiscono solo miseria, senza contare i danni prodotti sugli altri versanti del vivere civile.
Questo dice la storia, senza alcuna eccezione: la rovina economica è sempre arrivata da ricette stataliste. Sfido chiunque a dare dimostrazione del contrario.