Sono passati più di 1.000 giorni dai referendum consuntivi tenutisi nel 2017 in Veneto e in Lombardia, dai quali sarebbe dovuto partire il percorso che avrebbe portato al trasferimento di diverse competenze dello Stato centrale alle Regioni, sulla scorta della modifica del Titolo V della Costituzione approvata da un governo di centrosinistra nell’ormai lontano 2001. 1.000 giorni che hanno lasciato dietro di loro come unico risultato tangibile solamente l’imbarazzante video che il governatore del Veneto Zaia fece girare alla vigilia del Natale 2017, nel quale entusiasticamente (e ingenuamente) proclamava che quello sarebbe stato il “Natale più bello per i Veneti”.
Da allora di natali ne sono già passati tre, ma il treno del federalismo continua a giacere mestamente fermo su di un binario morto e non si intravvede nessun locomotore in grado di spostarlo. Lo stesso Zaia in queste settimane è troppo impegnato nella campagna elettorale per le elezioni regionali che lo dovrà vedere riconfermato almeno con un plebiscito, sull’onda della narrazione del “governatore che ha salvato il Veneto dal Covid”, per poter affrontare un tema come quello del sostanziale insabbiamento dell’autonomia che al netto delle affermazioni propagandistiche lo metterebbe in seria difficoltà. In realtà a chiunque mastichi un po’ di politica a livello più elevato di quella da social, tutto il circo propagandistico che ruota attorno all’autonomia delle due regioni principali del nord ha puzzato di imbroglio fin dall’inizio. Prima di tutto a causa del tempo trascorso – 16 anni – da quando la riforma costituzionale del CSX ha consentito alle Regioni di avere a disposizione gli strumenti per richiedere un trasferimento di “alcune” competenze dello Stato, a quando queste hanno iniziato il processo di devoluzione. Non esattamente segnale impazienza. Lo stesso referendum in Veneto fu promosso da FI, la Lega si accodò e alla fine ci mise il cappello sopra, ma l’iniziativa non fu sua. Il vero nodo è l’assoluta incompatibilità politica tra la strategia di “sfondamento a sud” della lega italianista di Salvini e qualsiasi progetto autonomista per il nord. Questa incompatibilità è passata sottotraccia durante l’esperienza del governo gialloverde, durante la quale la Lega ha avuto buon gioco ad addossare al partner grillino di governo le responsabilità del sostanziale insabbiamento del processo che si sarebbe dovuto concludere con l’autonomia.
Ma in questo senso non concordiamo con chi ha sostenuto che Salvini abbia barattato “Quota 100” con l’autonomia del Nord, in primo luogo perché la misura assistenzialista era gradita anche al partner grillino, in secondo luogo perché ogni serio progetto di riforma autonomista non può prescindere dall’aspetto economico, ovverosia dal regime di trasferimento dei fondi dalla periferia al centro e viceversa. L’autonomia perché non sia una pagliacciata deve poter mettere in condizioni i soggetti periferici di gestire direttamente tutto o in parte il proprio gettito fiscale. Ma è chiaro che trattenere la ricchezza ove viene generata diminuirebbe i trasferimenti alle regioni del sud e metterebbe in seria discussione quella “coesione nazionale” che fino a oggi è stata basata sull’uso clientelare di risorse estratte dalle regioni e dai ceti produttivi per essere incanalate verso la spesa pubblica assistenziale improduttiva, tipo le migliaia di forestali calabri che ormai sono diventati un luogo comune. Salvini alla ricerca di voti in Calabria non ha la minima intenzione di farlo, tanto per lui i popoli del nord sono le galline dalle uova d’oro, votano Lega pur non avendone nessun beneficio. Che fare allora? È urgente tracciare un minimo schema d’azione inderogabile nel quale si possa riconoscere chi è ancora convinto che la battaglia per l’indipendenza del Nord abbia un senso.
E qui ci sia consentito di dire che Salvini deve ingoiarsi la panzana con la quale ha giustificato la virata nazionalista imposta al partito, ovverosia che “non vi fossero più le condizioni per una battaglia indipendentista”. Scozia, Catalunya e Irlanda del Nord stanno a dimostrare cosa possono fare delle classi dirigenti motivate da qualcosa che non sia l’occupazione di incarichi pubblici che garantiscano prebende. Pochi punti quindi, precisi e inderogabili. Prima di tutto una stretta alleanza tra Veneto e Lombardia, regioni sorelle legate da mille relazioni le quali o si salvano assieme o muoiono assieme. E quando diciamo “muoiono” intendiamo esattamente quello che diciamo. L’Italia è l’unica nazione europea che si presenta alla prova del Covid con un PIL più basso, e di ben il 9%, rispetto a quello che aveva alla fine della crisi del 2008. Il suo sistema ormai vede la parità tra lavoratori attivi e inattivi e si basa su politiche assistenzialiste fatte estraendo risorse dai ceti produttivi mediante la tassazione o facendo debito, il quale comunque ricade sempre sugli stessi ceti produttivi già tassati. È chiaro che la situazione è vicina al punto di rottura e il drammatico negoziato riguardo al sostegno europeo per attenuare la crisi post Covid lo testimonia.
Abbandonare la nave che affonda non è più questione di fare la “secessione dei ricchi”, come si legge in certe sciocchezze partorite dai sacerdoti dell’unità nazionale, significa semplicemente sopravvivere. In secondo luogo, chiarire l’obiettivo che può che essere uno solo: l’indipendenza. Nessun altro è ammissibile perché sarebbe una mezza soluzione e quindi una non soluzione, specie se parliamo di autonomia, tanto evocata ma che si rivelerebbe una trappola. Questo è il miraggio dal quale non si deve assolutamente essere tratti in inganno: qualsiasi soluzione autonomista che nasca dall’interno dell’apparato costituzionale dello stato nazionale centrale non è buona per il nord, perché sarebbe un compromesso al ribasso funzionale alle logiche centraliste. Infine, vi è l’urgenza di costruire un “gramscismo indipendentista”. Il teorico comunista sosteneva che non si poteva pervenire ad un’egemonia politica se non si fossero prima creati i presupposti per un’egemonia culturale nella società. È fondamentale che il discorso indipendentista si riverberi in un associazionismo “dal basso” e sui mezzi di comunicazione in modo tale da costruire una consapevolezza culturale degli obiettivi da perseguire. In questo senso si coglie l’importanza dell’esperienza di una testata come “la voce del nord. Il movimento poi troverà i suoi leader, ma prima deve essere ricercato il consenso culturale negli strati intellettuali e produttivi della società lombardo-veneta.
Solo così le patetiche figure di parlamentari salviniani precedentemente indipendentisti che tengono discorsetti di circostanza a Lamezia Terme potranno essere gettate nella pattumiera della storia del nord.