Ricorre in questi giorni il decimo anniversario del referendum sull‘acqua. È un argomento che interessa tutti perché senza acqua non c’è vita. Nel 400 dopo Cristo Agostino d’Ippona (poi Sant’Agostino, il doctor gratiae) metteva, giustamente, l’acqua fra i “beni di Dio”; cioè non disponibili per il commercio fra uomini, come l’aria, come il tempo.
Dunque è comune e condiviso patrimonio della nostra cultura che l’acqua è di tutti. Ci sarebbe da chiarire chi sono questi tutti: il genere umano? Tutti i cittadini dello Stato? I soli residenti che vivono attorno alle sorgenti? A prima vista la lectio agostiniana, fatta propria non so quanto consapevolmente dai Movimenti, sembra indicare l’intero genere umano. Ma vaglielo a dire per esempio ai Lucani che non sono felici di lasciarne godere l’uso ai vicini Pugliesi, senza parlare delle infinite vicissitudini comunali e perfino individuali.
Sul tema circa 10 anni fa gli italiani hanno creduto di ribadire, attraverso un referendum, l’assioma agostiniano: l’acqua è di tutti. Invece il referendum era stato manipolato in due modi: – per raggiungere il quorum fu abbinato alla abrogazione del ritorno alla energia nucleare – il quesito non riguardava la proprietà dell’acqua, bensì la gestione della sua distribuzione: attraverso società pubbliche o private?
Il 95% dei votanti di quel referendum decretò che dovesse prevalere il sistema pubblico: non avevano votato sulla proprietà dell’acqua, bensì su chi aveva il diritto di gestirne la distribuzione.
Ebbe così inizio una parabola di privilegio del pubblico attraverso l’uso delle “società speciali” comunali o provinciali che, a distanza di 10 anni, non ha apportato alcun alleggerimento delle bollette per gli utenti (aumentate in media del 2,7% all’anno), non ha migliorato l’efficienza delle reti distributive che continuano a perdere oltre il 40% delle acque dalla fonte al rubinetto di casa, hanno accumulato oltre 1 miliardo di debiti. Le loro perdite non sono contabilizzate nei bilanci pubblici perché a subirle sono appunto le spa o le srl a controllo pubblico, che agiscono in regime di monopolio territoriale e rimediano alle disfunzioni e alle incapacità gestionali manovrando le tariffe secondo le esigenze loro e non le esigenze dei cittadini utenti.
Conclusione: hanno accumulato perdite miliardarie, non hanno migliorato né i servizi né gli impianti: è l’eterogenesi dei fini ma anche la conferma del detto latino: vulgus vult decipi, deinde decipiatur (per chi non ha fatto il Liceo Classico: il popolo vuol essere preso per i fondelli, pertanto accontentiamolo).
Il sottostante è una cultura egualitaria inestinguibile: meglio stare tutti male piuttosto che qualcuno stia meglio di altri: la miseria comune e condivisa da (quasi) tutti come migliore soluzione, da contrapporre alla alternativa che tutti stiano meglio ma che alcuni stiano meglio degli altri.
Questa cultura è remota e pervasiva, oggi ha trovato sintesi nello sconclusionato M5S (vedi il contenuto della Legge Daga: i gestori delle acque non devono avere finalità lucrative) e nella mai doma ideologia cattocomunista rinverdita da Letta. Ma i soldi chi li mette? Vengono dalle tasse, senza alcun cenno ai costi/benefici, cioè alle competenze e alle efficienze gestionali. Siccome i gestori sono pubblici, perciò stesso sono virtuosi.
C’è di che invitare i cittadini e per essi i partiti di cdx a esaminare l’involuzione che si è prodotta nel tempo per contrastare le consuete promesse sinistre (il sole dell’avvenire) e le soluzioni oniriche dei grillini: l’acqua è di tutti ma è fattore scarso, per questo deve essere gestita con efficienza e competenza e non con l’ideologia a tutt’oggi imperante: resterebbe l’ideologia ma mancherebbe l’acqua.