La vita dell’amministratore locale negli ultimi anni si è fatta dura. Da trampolino di lancio per una carriera nazionale, lo scranno di sindaco è diventato fonte di grane infinite per chi si trovasse a occuparlo, stretto come si trova tra le aspettative della cittadinanza che lo ha eletto (direttamente) e risorse economiche disponibili sempre più sottili. A tutto ciò si è aggiunto un nuovo handicap per chi intendesse intraprendere la carriera dell’amministratore locale: la “liquidità” delle coalizioni politiche nazionali.
La sinistra è impegnata nell’improbo compito di gettare le fondamenta di un’alleanza sistemica con un M5S in stato di avanzata decomposizione, compito che ha le stesse difficoltà che avrebbe tentare di gettare le fondamenta di un grattacielo altro 100 piani nella melma. Il CDX stante il progressivo declino di FI che rispecchia il declino fisico del suo leader Berlusconi, è sempre meno centro e sempre più destra, divisa in bande in competizione tra loro per stabilire chi, tra la Meloni e Salvini, possa essere il candidato premier alle prossime elezioni politiche.
In questo scenario di rovine, la “candidatura civica” è la foglia di fico che spesso copre l’incapacità delle coalizioni di “fare sintesi”. Verona in questo senso è un laboratorio politico d’eccezione. La battaglia per le prossime amministrative nella città di Giulietta vedrà sommarsi diversi fattori. Dall’incapacità della politica di produrre una classe dirigente, alle tensioni tra alleati che sono di fatto competitor, alla debolezza ormai cronica dei partiti nazionali che sul territorio sono più simili a un’aggregazione occasionale di bande che a una compagine coerente e unita. Il sindaco uscente, Federico Sboarina, quattro anni fa dichiarò che non si sarebbe candidato per un secondo mandato, avendo con la sua elezione coronato il sogno coltivato fin da bimbo di fare il sindaco (c’è chi voleva far l’astronauta e chi voleva far il pompiere…).
Evidentemente, nel frattempo ci ha ripensato. La coalizione che lo ha sostenuto è composta da Lega, FdI, Liste civiche e una componente che si dichiara FI ma che non è riconosciuta dalla dirigenza locale del partito di Berlusconi, la quale ufficialmente dichiara di non far parte della maggioranza di governo cittadina. Questo equilibrio farmaceutico è stato messo in crisi dal passaggio annunciato pochi giorni fa di Sboarina in FdI. Il “Coming out” del sindaco ha scatenato le ire della Lega, la quale sostiene che con la sua adesione a FdI sono state tradite le premesse “civiche” (segnatevi bene questa parola perché sarà il refrain di tutte le campagne amministrative che verranno) con cui era nato il progetto di governo cittadino. Qual è il punto? La lotta per la supremazia nel CDX combattuta tra Lega e FdI a colpi di sondaggi demoscopici e di amministrazioni conquistate. Se un candidato “civico” può in qualche modo essere impapocchiato come “né salviniano ne meloniano”, uno con la bollinatura del partito è una bandierina piantata come quelle sugli stati del Risiko. I due movimenti ora come ora grossomodo si equivalgono, pesando demoscopicamente intorno al 20% entrambi, ma Verona per FdI sarebbe il primo comune di importanza nazionale ad essere conquistato. Inoltre, Salvini è così preoccupato dell’agguerrita concorrenza del partito della Meloni che sta continuamente rosicchiandogli consensi, da aver dato il suo placet al dialogo con l’ex arcinemico Flavio Tosi, dialogo che a livello locale pare andasse avanti già da diverso tempo. Dell’ipotesi di un’exit strategy della Lega dall’amministrazione Sboarina in realtà a Verona si discute su tavoli informali già da parecchio tempo. Il partito di Salvini si sente penalizzato dalla gestione di un’amministrazione che in 4 anni ha prodotto poco. Ma si trova in un vicolo cieco in quanto, anche a causa di una classe dirigente locale piuttosto “fragile”, non riesce a esprimere un nome alternativo a Sboarina. Da ciò discende la scelta obbligata di rivolgersi a Tosi, amministratore esperto, politico carismatico e affatto disposto a rassegnarsi a passar la mano. Oltre che in possesso di consistenti pacchetti di voti.
Che ci insegna il laboratorio veronese? In primo luogo, che di fatto il CDX nazionale non esiste più, almeno dal governo Conte 1. Del resto, Salvini e Berlusconi (e Tosi, nei fatti) si trovano a Roma a far parte della compagine governativa, al contrario della Meloni che se ne sta fuori in solitaria opposizione. Sul territorio si potranno di volta in volta materializzare convergenze “necessarie” per il controllo degli apparati locali, ma la difficoltà di sintesi politica espressa dall’abuso della “civicità” dei candidati sono piuttosto impietose. Questi infatti emergono quasi per inerzia più dalle divisioni e dai veti incrociati tra i due azionisti di maggioranza del CDX piuttosto che dalle loro convergenze. Paradigmatica l’improbabile candidatura del medico pediatra sintetizzata per Milano. Posto ovviamente che un CDX di governo con un progetto condiviso sia mai esistito. Ricordiamoci chi contribuì ad affondare al referendum la riforma costituzionale del 2006. Gli eredi sono nel partito della Meloni. In secondo luogo, che i movimenti nazionali i quali basano sul personalismo e le campagne social i loro consensi, non riescono più a produrre classi dirigenti locali. E nemmeno ad avere il controllo degli apparati periferici.
Tipico caso la situazione veronese di FdI i cui membri, sindaco incluso, a livello nazionale dichiarano di far parte del movimento della Meloni mentre a livello locale si dichiarano appartenenti a movimenti “civici”. Cose che nella tanto vituperata “Prima Repubblica” non esistevano. Un vicolo cieco quindi? Tutto lo lascia pensare, almeno fino a quando, come scriviamo spesso su questo giornale, la politica non tornerà ad essere fatta sul territorio e non sui social e non avrà al centro un progetto chiaro.