Premetto che il mio giudizio su Alitalia è molto severo: si tratta di un “caso di scuola” che ben rappresenta i vizi sindacali, le debolezze demagogiche della politica, la furba disinvoltura dei dipendenti, ma ahimè, anche la cultura antindustriale diffusa negli italiani.
È certificato che Alitalia dal 2017 ad oggi ha perso 8 miliardi di € che sono stati pagati dai contribuenti italiani. Se ci aggiungiamo le perdite precedenti, l’esborso dei contribuenti a solo beneficio dei dipendenti Alitalia somma a oltre il doppio. Una mini “manovra” per arrivare alla odierna messa in liquidazione della società: non si è trattato di un investimento ma di una elargizione a fondo perduto.
Ci sono anni di storia Alitalia con episodi da manuale della dispersione di denaro pubblico.
Fra tutti mi colpì l’ufficio preposto alla scelta dei nomi da dare agli aerei: Alitalia, per la prima volta al mondo, decise di dipingere sulle fiancate dei suoi aerei i nomi di grandi geni italiani (Michelangelo, Leonardo …) o di famose località turistiche (Portofino, Capri…). Per farlo costituì un apposito ufficio con un dirigente e una decina di addetti: quasi un milione di €/anno di costo del lavoro!
Capisco che l’Italia ha tanti geni da ricordare e tante attrazioni turistiche da valorizzare, non ho mai capito la necessità di un ufficio per scegliere poco più di cento nomi peraltro una tantum, cioè una volta definito un nome quello restava per sempre, però per sempre restava l’ufficio.
Ricordo questo episodio fra i tanti, non per la sua valenza economica ma per il suo significato: da decenni Alitalia non ha avuto una cultura di impresa, ha sempre avuto una malata cultura sindacale e di privilegio a carico dello Stato, che l’ha agevolata con i soldi dei cittadini.
Per chi ha voglia di meglio conoscere tutte le storture della gestione Alitalia nei decenni, il proliferare di sigle sindacali fasulle, l’uso che ne fecero i partiti di ogni colore politico, le furbate dei dipendenti, insomma l’intera e trista vicenda, sono disponibili anche su internet studi, interventi, addirittura libri.
Questa cultura di autentica rapina fu confermata dai dipendenti Alitalia che votarono a valanga no al referendum sul piano industriale sottoposto dal management nel 2017: puntarono sul commissariamento della società accollando ancora una volta allo Stato i costi relativi. E ancora una volta la politica eseguì: costo della decisione, come detto, € 8 miliardi.
Alitalia è un “caso di scuola”, fra i tanti che mi sembrano avere alla base la indotta convinzione che le imprese non devono avere lo scopo prevalente di creare ricchezza per i soci investitori, come dice il codice civile art. 2247, ma quello più generale (e generico) che le esigenze degli stakeholder (soggetti esterni all’impresa) devono prevalere su quelle degli shareholder (soci investitori).
Senza approfondire la contradditoria normativa introdotta nel 2016, da ciò deriva il principio che le imprese possono, anzi spesso si dice che “devono”, rimanere operative, pur in perdita strutturale, se rappresentano una “utilità sociale”. In senso lato: garanzia di occupazione, tutela ambientale, promozione culturale, coesione e integrazione sociale. L’utilità sociale, raggiunta con ripianamento delle perdite a carico dell’ente pubblico di turno, giustifica di per sé la prosecuzione in perdita dell’impresa.
Si pone dunque il problema conclusivo: se per esempio Alitalia è rimasta operativa per decenni in perdita strutturale a soli fini di “utilità sociale” (mantenere salari e stipendi a oltre 12.000 dipendenti) utilizzando i contributi pubblici, se questa impostazione culturale, comportamentale e normativa prevarrà nell’intero sistema Italia, c’è da risolvere il consueto problema di chi sarà in grado di produrre la ricchezza da cui l’ente pubblico trae i mezzi economici per finanziare le perdite strutturali delle imprese a “prevalente utilità sociale”.