Flop del referendum sulla cittadinanza: bene. Lo dico un po’ perché non condivido la proposta di ridurre i tempi d’attesa a cinque anni per la cittadinanza, un po’ perché il gesuitesco referendum abrogativo ma propositivo è un qualcosa di problematico (come anche dimostrano le varie campagne del tipo “e se i vostri nonni non fossero andati a votare per il divorzio?” Beh, non sarebbe passato il quorum e sarebbe rimasto…), un po’ perché si è perso quasi subito il focus sul testo del referendum, diventato rapidamente “se non voti si odi i bambini immigrati”, con campagne ridicole che parlano di “dovere” di naturalizare.
Tuttavia, non raccontiamoci balle: essere stranieri in Italia è talvolta un problema. Non una tortura, altrimenti non ci sceglierebbero in molti, ma una bella serie di gatte da pelare ci sono e non si può negare.
La prima e quella più grande è la burocrazia: se anche noi cittadini ne siamo vittima, abbiamo la leva del voto e talvolta anche del potercene fregare con conseguenze rare e solitamente di poco conto, mentre gli stranieri spesso vengono sballottati da un ufficio all’altro e sottoposti a temi d’attesa ridicoli per burocrazie che, francamente, nemmeno sembrano necessarie.
La seconda è la discriminazione legale, che talvolta esiste: regi decreti, leggi antiche, leggi moderne senza senso… chiaramente talvolta ha senso che lo stato debba limitarsi ai propri cittadini per determinati ruoli, così come nel caso del welfare lo stato ha un dovere nei confronti dei propri cittadini che non ha con gli altri, ma altrettanto non ha senso che compiti che un cittadino straniero legalmente residente di lungo periodo può tranquilla svolgere siano affidati arbitrariamente a un cittadino.
Io affermo la necessità, prima del diritto a naturalizzarsi, del diritto a essere stranieri in un paese essendo membri produttivi della società e ricevendo indietro ciò che è giusto ricevere, senza inutili vessazioni o lungaggini burocratiche.
“Qui nessuno è straniero” è una delle frasi più stupide che credo di aver mai sentito: lo straniero è straniero e se vuole può anche rimanerlo a vita, non è per forza di cose necessario un cammino di integrazione. Se io andassi all’estero in un paese che mi può anche piacere magari vorrei rimanere il solito milanese brontolone, un milanese brontolone produttivo in questo paese, capace di dare, e che si aspetta anche qualcosa indietro, ma non necessariamente diventare paesesterese o addirittura sentirmi costretto a ciò da un sistema discriminatorio.
Chiaramente se questo cammino d’integrazione c’è è bene che a un dato momento lo si riconosca: difficilmente (a meno di culture di partenza molto simili) sarà un’integrazione totale, ma a un certo punto è sufficiente. La questione della cittadinanza, in tutta onestà, è quasi metafisica: non basta pagare le tasse per un tot di anni, risiedere o completare un corso con alcune nozioni culturali di base, è un cambiamento interno che è molto più facile da comprendere quando l’ottenimento della cittadinanza non è motivato da ragioni pratiche, quali l’avere un passaporto migliore o la volontà di eliminare la burocrazia, ma da ragioni intime, come spesso accade a chi già in un paese ha tutti i diritti senza problemi (tipo tra cittadini UE) ma un giorno gli scatta un qualcosa che gli dice “ora sei anche di questa comunità”.
Non parliamo oggi, ma lo faremo sicuramente in un altro articolo, delle “seconde generazioni”: d’altronde, a dispetto della propaganda, non erano l’elemento chiave della consultazioni. Dico, però, che difendo anche il diritto di parti di esse a non sentirsi italiane ma del proprio paese d’origine: è un fenomeno da controllare, perché isole allogene nel proprio Paese, per di più spesso con una visione idealizzata della patria d’origine, non è proprio il top (e al Nord abbiamo ancora qualche segno di ciò dato da immigrazione interna), ma se c’è chi vuole sentirsi egiziano o peruviano, va bene: non chiedano la cittadinanza, però.
Il punto, comunque, è che in uno stato che funziona la priorità non è che la cittadinanza si ottenga nel minor tempo possibile, cosa tra l’altro rischiosa nell’ottica di una reale integrazione, ma che lo straniero veda in essa non una necessità per liberarsi di ingiuste catene, ma la coronazione di un suo eventuale cammino d’integrazione.
Straniero dev’essere un semplice status della persona, non una sua caratteristica determinante. Una caratteristica che si ricorda una volta ogni tanto, quando c’è da rinnovare un documento in modo semplice e veloce, oppure davanti a un raro bando che per una valida ragione esclude il cittadino straniero, non una volta ogni due anni davanti a una fila interminabile in un ufficio pubblico inefficiente o fin troppo spesso davanti a procedure bizantine dove il passaporto sembra quasi un carisma dell’anima.
Parimenti, ogni straniero è una persona a sé, con abilità, tendenze, punti di forza e di debolezza. Non esistono gli stranieri, per qualcuno dei Messia venuti a salvarci dal declino e per altri invasori che ci devono distruggere, ma individui con una cittadinanza diversa dalla nostra che, per quanto possibile, vanno trattati come tali: da individui.