Ieri era il 25 aprile, con solite polemiche, idioti comunisti che si lamentano del fatto che sia una festa divisiva salvo aggredire chi va in piazza se non ha una bandiera rossa, idioti fascisti che dicono che la Resistenza era un movimento comunista, idioti con la bandiera palestinese che aggrediscono la Brigata Ebraica e robe del genere.
Sembra il solito circo politico italiano, ed è comprensibile che chi tanto italiano non si sente (o magari si sente tale solo in conseguenza della propria nazionalità reale) ne voglia restare ben lontano. Ma in realtà autonomisti, autogovernisti e indipendentisti dovrebbero ben conoscere la Resistenza e apprezzarne l’azione.
Prima di tutto, c’è un’importante ragione morale: nonostante tutto, l’Italia di oggi ha molti retaggi fascisti, sia nella legislazione, che nell’identità: ancora oggi l’Italia romana, fatta col sangue sul Piave, visione che tanto piaceva a Mussolini, è la visione prevalente dell’identità italiana.
È quindi comprensibile che chi si opponeva al fascismo si opponesse anche alla visione nazionalistica che vi era dietro, così sorsero vari movimenti partigiani localisti, autonomisti o oltre, i primi che mi vengono in mente sono le Brigate Osoppo, le brigate partigiane figlie del Partito Sardo d’Azione, gli autonomisti alpini della famosa carta di Chivasso, alleati di Giustizia e Libertà, e i Guelfi d’Azione, che specie in Lombardia promuovevano una visione democristiana simile a quella di Sturzo, federalista e autonomista, figlia di chi voleva la confederazione italiana guidata dal Papa.
Proprio dai Guelfi d’Azione, più precisamente dal loro Programma di Milano, era ispirato Guido Calderoli, nonno del noto politico leghista, che fondò il Movimento Autonomista Bergamasco, convinto che l’istituzione delle Regioni, in un contesto federale, fosse essenziale per ridurre la possibilità di una qualsiasi deriva fascista, rischio ben più elevato in uno Stato centralista, per quanto apparentemente democratico.
E sempre in Lombardia, collegato all’azione del Calderoli, l’avvocato ebreo e fuggito in Svizzera per le leggi razziali Giulio Bergmann, esponente repubblicano, si faceva promotore dell’autonomismo: era normale all’epoca vedere il nome del Movimento Autonomista Bergamasco insieme alla foglia repubblicana e alla “E” del federalismo europeo.
Non era l’unico esempio: Gianfranco Miglio raccontava di nuclei di partigiani federalisti che si erano riuniti attorno alla testata “Il Cisalpino” di Tommaso Zerbi, all’epoca membro del Partito Popolare di Sturzo.
E vogliamo poi parlare del padre delle Katakombenschule Michael Gamper, dei Dableiber che dovettero formalmente rinunciare alla loro identità, sembrando traditori a Hitler e sporchi tedeschi per Mussolini, per restare nella propria Heimat e ai partigiani dell’Andreas-Hofer-Bund?
Non è un caso che Bossi, prima che la Lega divenisse un normale partito di destra italiana alla ricerca del suo spazio tra i liberalconservatori di Forza Italia e gli ex missini di Alleanza Nazionale, parlasse di Lega come forza in continuità con l’azione dei partigiani, traditi dalla partitocrazia: la Costituzione italiana è regionalista, ma le Regioni sono state istituite tardivamente, solo per poter istituire la sanità Beveridge, e ancora oggi sono essenzialmente larghissime agenzie sanitarie, con il 70% o l’80% del bilancio dedicato a quello.
Mancò purtroppo il coraggio di cambiare radicalmente, come la Germania, e di divenire una federazione, e la partitocrazia si rese conto che era molto meglio avere il potere a Roma che in ventuno posti diversi. Nonostante ciò, guarda caso, la zona più autonoma d’Italia, ossia la provincia di Bolzano, è quella più ricca, virtuosa e ben gestita e riesce, in tutto ciò, a staccare un assegno di un miliardo a Roma ogni anno.
Questa mancanza di coraggio ha sempre portato a strani ibridi: fino a pochi anni fa la sinistra era pro autonomie, ricordiamoci la Lega del Po di Guido Fanti o la riforma autonomista di Prodi, ma la malattia nazional-centralista ha sempre impedito di fare le cose per bene, preferendo strani ibridi decentramentalisti che non permettono ai migliori di godersi la propria condizione né ai peggiori di migliorare, il tutto in nome del “siamo italiani, tutti devono avere gli stessi diritti”.
In ogni caso, credere che la Resistenza non sia affare nostro e che è semplicemente una scelta tra rosso e nero è ingenuo, specie quando la partitocrazia prende gli onori di questi federalisti e autonomisti berciando di centralismo, di sangue sparso per la Patria da poveri giovani mandati a morire dall’Italia per egoismo nazionalista e altre retoriche del genere che farebbero tanto piacere al maestro di Predappio.