Il problema del referendum è che fa parlare il popolo: così, quando il popolo dice ciò che piace a noi, viva il referendum, facciamone uno ogni tre mesi, mentre quando dice ciò che non ci piace il referendum è il male, il popolo è stupido, non deve decidere su certe cose e anzi andrebbe abolito il suffragio universale.
Così, persone indignate dal non raggiungimento del quorum e che urlano alla mancanza di senso civico, ma a cui spesso sospettosamente mancano timbri del 12 giugno 2022, propongono di rivedere le regole del referendum, eliminando il quorum incolpandolo della propria sconfitta.
Ma, se le regole son giuste, la sconfitta non è colpa di nessuno, se non degli elettori che sono disinteressati o contrari a ciò che si vuole: proporre di cambiare le regole, oltre che segno d’immaturità, è anche sciocco, perché non dà certamente garanzia di vittoria. Anzi, diciamolo: per il futuro della causa delle riforme della cittadinanza è meglio una pigra sconfitta come questa o una netta sconfitta dove il 65% dei votanti ti dice no?
Per non parlare del fatto che, quand’era la destra a voler cambiare le regole dopo aver perso, come nel caso dei ballottaggi, si parlava quasi di ritorno al fascismo… Parlando di destra, che dire dell’idea di aumentare il numero di firme necessarie alla richiesta di referendum abrogativo?
Tema complesso: effettivamente, se un tempo raccogliere le firme richiedeva un certo impegno e i referendum erano eventi di un certo spessore, oggi qualsiasi influencer gracchiante può lanciare un referendum come se fosse una petizione su Change.org e, se la Corte Costituzionale impone le mani sul quesito, far spendere qualche decina di milioni di Euro allo stato per eseguirlo.
Sta di fatto che ripensare il referendum vuol dire ripensare il sistema istituzionale. Oggi, nei fatti, il referendum che intendiamo noi è quello abrogativo, nei riguardi di una legge in vigore approvata da un Parlamento eletto in un sistema dov’esso è, almeno, in teoria. Il quorum sembra quasi generoso, quando si pensa che basta il 25%+1 degli aventi diritto a favore per abrogare una legge approvata dal Parlamento di tutti.
Se il Parlamento è centrale, l’idea che basti l’1% degli aventi diritto a chiedere l’abrogazione e che non ci sia alcun criterio che coinvolga la maggioranza di essi successivamente è aberrazione pura.
Poi, si può cambiare sistema istituzionale. Non sembra ma l’Italia è uno degli Stati europei ad aver avuto più referendum, dato che sono più accessibili e diffusi che in altri Paesi. Tanti prendono la Svizzera come nuovo esempio, ma nella Confederazione, come ci spiegava il compianto Franz Forti, non c’è il referendum abrogativo di una legge in vigore, tantomeno parziale: si vota in fase di promulgazione della legge, non dopo, magari dopo anni e con un taglio degno di un chirurgo che fa dire a una legge tutto l’inverso di ciò che diceva prima.
Volendo essere poetici, mancando alla Svizzera un vero capo di Stato, la funzione di promulgare le leggi spetta al Popolo, che si presume a favore a meno che una raccolta firme porti alla consultazione popolare, dove si decide in modo esplicito.
Ma la Svizzera ha un sistema istituzionale fondato su questo tipo di partecipazione, non è certamente un’aggiunta posteriore, e tanti dettagli difficilmente piacerebbero a chi oggi la vorrebbe adottare come magica soluzione per trasformare una sonora sconfitta in vittoria: federalismo spinto? Stato di milizia? Difficile possano piacere a quelli che pensano che l’autonomia differenziata sia spaccare l’Italia e che i cittadini le armi nemmeno dovrebbero averle su Call of Duty…
Soprattutto, in Svizzera c’è un dibattito lungo, preciso e onesto sui quesiti, supportato anche dalle istituzioni. Franz nella live linkata pochi paragrafi indietro spiega tutto con estrema chiarezza. Tale dibattito è mancato in Italia in molte consultazioni, tra temi tecnici noiosi per il cittadino medio, temi fortemente polarizzanti, politicizzazione dei quesiti e via discorrendo… la cosa più simile ad un referendum svizzero è stato quello del 1981 sulla 194/78, dove gli italiani, bocciando sia una proposta sostanzialmente per l’aborto libero e illimitato dei Radicali sia una restrittiva del Movimento per la Vita hanno confermato non solo la legge ma anche il suo spirito, ma è anche dimostrazione del fatto che per via referendaria si può cambiare quasi solo nel solco di quanto fatto dal Parlamento.
Questa consapevolezza – che richiede anche responsabilità – non si crea in un Pater, specie per mano di gente SPID-dotata che sta firmando petizioni a nastro con la promessa che al prossimo referendum potranno ottenere il diritto di volare grazie all’abolizione del quorum, ma richiede un lavoro multigenerazionale.
Vogliamo rendere l’Italia più simile alla Svizzera, dove la sovranità appartiene veramente al popolo e il parlamento è suo umile servitore e delegato? Io ci metto la firma, ma bisogna rendersi conto che è un processo che forse vedrò ultimato negli ultimi anni della mia vita e che richiede una profonda revisione di come funziona… tutto.
Non è un qualcosa che si fa dopo una sconfitta per mera reazione e volontà di vincere la prossima volta, anche perché la democrazia diretta ne regala tante… ma quantomeno, per quanto anche la Svizzera abbia avuto i suoi quesiti caldi, in una società matura e che dialoga anche la “sconfitta” può essere occasione di conoscere meglio l’altrui posizione e contribuire al dibattito e allo sviluppo democratico. Mentre lunedì pomeriggio quasi sembrava che se non eri andato a votare il modo più corretto per appellarsi a te fosse un certo saluto a braccio teso seguito da “Heil Hitler”.
Finché siamo così polarizzati e poco dialoganti, finché i primi quattro quesiti erano la conta interna della sinistra e l’ultimo è diventato rapidamente “vuoi i negri? Si/no”, non siamo nemmeno pronti a iniziare questo cammino.