Ci sono argomenti che diventano punti fermi di riferimento per partiti, movimenti, pubblica opinione.
Mi sembra chiaro: uno di questi è oggi la questione TAV.
Di per sé i benefici economici diretti che metterebbe in moto se fatta, o i costi derivanti, se non fatta, sono una ben modesta parte nel mare magnum del bilancio dello Stato: qualche piccolo decimale di punto.
Ma la TAV è ben altro che una modesta posta di bilancio: è emersa come lo spartiacque ideologico, programmatico e di rappresentanza dei due soci di governo e pare del tutto ininfluente che sia o non sia nel “contratto” e come vi sia esplicitata. Peraltro in attesa che il tema delle autonomie regionali di Lombardia e Veneto cada sul tavolo del governo, ammesso che il governo ci arrivi vivo.
L’analisi costi benefici commissionata dal ministro “competente” Toninelli alla squadra amica di tecnici ed analisti ha dato i risultati che doveva dare e per i quali era stata commissionata (bel esempio di neutralità scientifica!), ma è stata sottoposta a cannoneggiamenti di ogni genere e ne è derivata una credibilità tecnica molto modesta con qualche spunto che può sembrare addirittura comico.
Per fare un esempio: il mancato introito da pedaggi autostradali. Come se il sistema Italia avesse qualche interesse alle marginalità del gruppo di Marcellino Gavio che a cascata controlla Argo Finanziaria e di seguito Ativa e SAV che gestiscono la Torino > Aosta ed è socio minoritario – il maggioritario è ANAS – della SITAF spa che gestisce la Torino > Bardonecchia. Senza allargare lo sguardo alle altre autostrade che collegano Torino al resto d’Italia, è quasi certo che queste tratte possano avere una contrazione nei ricavi da pedaggio se la TAV porta via i 2 /3 del traffico autostradale con la Francia ed oltre, ma questo rimane argomento di imprese private e al limite di minori introiti fiscali al calare degli utili societari, caso mai questo è il danno arrecato al sistema: minore gettito tributario sugli utili.
Calcolare il valore dei ricavi totali da pedaggio come danno al sistema Italia a me sembra tirato per i capelli.
Del resto ben altra musica viene dallo studio che perviene da Bruxelles.
Aggiungo che sussurri maligni e senza alcun riscontro, che qui riporto per informativa del tutto collaterale e un po’ giocosa, da tempo dicono che almeno parte dei componenti dei ferocissimi Comitati NO TAV siano dipendenti proprio di Gavio e delle sue partecipate: non avendo la passione del dietrologo non ho idea se veri o non veri i sussurri, ne sarà al corrente chi la sa più lunga di me. Comunque la maldicenza ipotizza che dietro all’ecologismo esasperato e ribellista ci potrebbe essere anche un sagace calcolo aziendale. I grillini dovrebbero controllare, se non lo hanno già fatto, magari attraverso il sindaco Appendino.
Tornando al complesso del tema, a me sembra che accanto ai danni o benefici economici diretti ce ne siano altri indiretti molto più pesanti. Non alludo tanto alla così detta credibilità internazionale, soprattutto verso la Francia (in termini di modesta credibilità basta un esempio per tutti: il comportamento francese nella vicenda Fincantieri/ Cantieri Saint Nazaire), alludo per esempio ai posti di lavoro impegnati nell’opera. Pur non essendo keynesiani non può sfuggire l’effetto distributivo derivante, che magari potrebbe aiutare anche i mitici “navigator” a intermediare un maggior numero di posti di lavoro disponibili, merce rara di questi tempi. Alludo alla filiera di imprese medio/piccole appaltatrici e sub appaltatrici: tutte italiane, tutte quasi al riparo dalla spietata competizione internazionale i cui margini, se ce ne sono, prendono la strada dell’estero.
L’altra sera, ascoltando una trasmissione televisiva, ho sentito dire dal redivivo Pecoraro Scanio che la TAV non interessa il Sud. Una visione a dir poco miope, e poi ha aggiunto che lo Stato ha “dato” al sistema privato delle imprese decine e decine di miliardi senza averne in cambio investimenti e nuovi posti di lavoro: come non ricordare a questo signore che lo Stato non produce ricchezza ma la distribuisce, drenando oltre il 60% dei margini complessivi dell’imprenditore e del lavoratore attraverso imposte, tasse, accise, canoni, cuneo fiscale e altre diavolerie pagate dai cittadini e dalle imprese private, ne spende la metà per auto sostenersi, mette paletti e limiti di ogni genere alla libertà di impresa, e per farlo impiega sempre più “guardiani” ostativi alla libera iniziativa, da giustizia a 15 anni data spesso con sentenze che lasciano a bocca aperta, e così di seguito. E tuttavia, per quanto possa sembrare paradossale, secondo alcuni acuti politici e perfino tecnici della Sinistra e dell’ala movimentista dei grillini in Italia vige un “liberismo selvaggio”.
In conclusione e mettendo insieme i due ragionamenti, siamo di fronte a un problema economico che ha dimensioni marginali rispetto allo scenario complessivo dei conti pubblici, ha invece un peso politico profondo perché tocca la capacità di rappresentanza dei due soci: i ceti produttivi del Centro Nord (ma ormai anche quelli meno numerosi ma esistenti del Meridione) oppure i ceti tendenzialmente poco propensi al rischio di impresa, legati a una cultura che vede nello Stato un nemico da combattere per esempio con la criminalità organizzata nostrana (ma ne vedremo delle belle fra pochi anni con il consolidarsi delle nuove mafie straniere che ci siamo importati, come quella ferocissima dei nigeriani) oppure vi vede il padre (padrone) che deve provvedere ai suoi bisogni senza nulla volere in cambio. Senza chiedersi dove prende le risorse che di certo non vengono da San Gennaro o da Santa Rosalia ma dai produttori di ricchezza, al 90% cittadini privati, soci o non soci di impresa. Ci si mette, anche, la cultura statalista dei Pecoraro Scanio e soci che vedono lo Stato non come complesso di norme e di uomini che gestiscono per delega il bene comune, ma come soggetto in sé, per di più “etico” (vedi Hegel).
Vedremo come finirà, tuttavia è proprio vero che l’ideologia è un animale spesso difficile da dominare, anzi che ogni tanto ci domina.