Qualche giorno fa mi è capitato in mano un saggio di Giovanni Sartori del 1977, nel quale il politologo fiorentino cercava di immaginare le conseguenze politiche, sociali ed economiche di un definitivo ingresso del PCI in un governo di coalizione con la DC.
E’ bene ricordare che quando Sartori scrisse quel saggio era in pieno svolgimento l’esperimento politico della cosiddetta solidarietà nazionale con il governo Andreotti III e molti ritenevano ormai inevitabile quello che veniva definito il compromesso storico, vale a dire l’alleanza di governo tra i due principali partiti la DC e il PCI, appunto. Non sto qui a riassumere i contenuti di quel vecchio scritto, ma tra i vari scenari possibili, quello che Sartori riteneva più probabile era la completa implosione del PCI; per questo, concludeva l’autore, Berlinguer si guardava bene dal forzare la DC ad accettare il compromesso storico.
La sostanza è che un partito anti-sistema quando arriva al governo o fa davvero la rivoluzione, o si trasforma esso stesso in sistema, tradendo la propria missione e finendo per scomparire nel pantano della politica “di palazzo”. Senza scomodare Mao Tze Dong, è evidente che una rivoluzione, per avere successo, deve lasciare dietro di sé una più o meno consistente scia di morti: la rivoluzione per cooptazione è una contraddizione in termini. Per quanto il PCI di Berlinguer si fosse ormai istituzionalizzato, in un certo senso occidentalizzato (come dimenticare il famoso e imperscrutabile eurocomunismo?) e avesse dato buona prova di sé in moltissimi governi locali, la rivoluzione d’ottobre rimaneva uno dei suoi miti fondativi. Del resto, il PCI continuava a mantenere l’organizzazione leninista basata sui cosiddetti “rivoluzionari di professione”. Immaginare di poter restare al governo insieme al partito della borghesia e del malaffare, come i comunisti stessi definivano la DC, senza aggredire nelle fondamenta il sistema economico di un Paese saldamente inserito nell’orbita atlantica e quindi capitalistica, avrebbe finito per creare sconcerto e disorientamento nella base. A tacitare gli appetiti che da trent’anni lo stesso PCI aveva stimolato, non potevano certo bastare un po’ di riforme, magari facendo anche le migliori politiche sociali possibili, o la distribuzione di mance a destra e a manca, per altro possibili solo in un determinato contesto internazionale.
I tempi sono sicuramente diversi e i cicli politici si sono decisamente accorciati, ma la parabola del M5S da partito antisistema del “Vaffa Day” a vaso di coccio del Governo del Cambiamento, pur rappresentandone di gran lunga la prima forza parlamentare, può essere spiegata in questo modo. Il sogno di fare la rivoluzione (aprire il parlamento come una scatoletta di tonno), senza spargimento di sangue è appunto un sogno e basta. Il grottesco contratto di governo, stipulato tra M5S e Lega, nel quale non c’erano perdenti, ma si prometteva tutto a tutti, giovani, pensionati, sessantenni, cinquantenni, imprenditori, precari, laureati, disoccupati, professionisti, autonomisti, insegnanti, dipendenti pubblici, dipendenti privati, ambientalisti, agricoltori, medici, ricercatori universitari, no-Vax, no-Tav, no-Tap e chissà cos’altro, era solo la parodia di un programma rivoluzionario. Era, anzi, la rinuncia ad assumersi la responsabilità di condurre un reale cambiamento nel Paese, assecondando tutte le paure e le pulsioni che l’attraversano, anche e soprattutto quelle più irrazionali.
Per questo, attribuire a Salvini l’intelligenza politica di avere svuotato il M5S rappresenta in un certo senso una forzatura. Salvini ha avuto l’indubbia capacità di cogliere l’attimo e di fare da catalizzatore di questo processo; cosa che molto probabilmente non sarebbe riuscita al Pd, ma l’implosione del M5S era nella natura stessa del suo programma politico, se così lo si può definire, una volta arrivato al governo del Paese. L’obiettivo vero di un elettore medio del M5S non è solo quello che di ottenere qualche benefit, tipo il reddito di cittadinanza, che comunque non potrà non essere inferiore rispetto alle promesse elettorali, ma sarà soprattutto quello di sottrarre ricchezza al nemico designato (la casta, le banche, la grande impresa, l’Europa, gli intellettuali, ecc.). Se non avviene questo reale stravolgimento del precedente equilibrio economico e sociale, la ragion d’essere di un movimento di questo tipo viene completamente persa. Esattamente come sarebbe avvenuto alle fine degli anni ’70 per il PCI di Berlinguer.
E la Lega? Ecco, in questa dialettica sistema/antisistema la Lega di Salvini ha saputo galleggiare in maniera mirabile, favorita in questo dal naturale posizionamento dell’alleato di governo, che, come abbiamo visto, si privava autonomamente di ogni spazio di manovra. Mentre la Lega ha potuto giostrare in libertà sul doppio ruolo, mostrandosi, di volta in volta, partito di garanzia per l’assetto economico, se paragonato alle ingenuità e agli estremismi dell’alleato, oppure partito iperpopolare e ipernazionalista fino a diventare eversivo verso le istituzioni repubblicane e soprattutto verso l’Unione Europea. Ma per quanto il quadro complessivo possa essere favorevole al partito di Salvini, è evidente che non si possono recitare le due parti in commedia per tanto tempo.
La contraddizione strutturale della visione politica di Salvini può reggere dal punto di vista comunicativo, ma crolla di fronte a uno dei temi costitutivi del leghismo, vale a dire l’autonomia. Non si può essere autonomisti e al tempo stesso antieuropeisti, per altro nella moderna variante sovranista. L’obiettivo dell’autonomia e del federalismo si è sempre dispiegato all’interno dei confini nazionali in un’ottica anticentralista, come è ovvio; il nemico era “Roma ladrona”: nel momento in cui Roma smette di essere ladrona, ma si ritiene che i problemi dell’economia italiana derivino in buona misura da vincoli imposti da Bruxelles, che senso ha insistere ancora sull’autonomia regionale?
E’ evidente che a quel punto “autonomia” è sinonimo di “secessione” non solo da Roma, ma anche da Bruxelles, appunto. Ma un tale disegno non potrà non trovare l’ostilità dei ceti produttivi e imprenditoriali del nord, aprendo quindi uno spazio politico a una forza che potrebbe di nuovo riprendere tutti i temi della vecchia Lega Nord con un nuovo linguaggio e una nuova elaborazione teorica, alla luce delle trasformazioni avvenute negli ultimi trent’anni.
Se i primi cento anni della storia d’Italia sono stati caratterizzati dalla questione meridionale, i secondi cento (sessanta dei quali sono già passati) dovranno porre come centrale il tema della questione settentrionale; magari augurandosi un esito migliore del precedente. I partiti passano, ma gli elettori restano, ma soprattutto restano i problemi fino al momento in cui non vengono risolti; io resto convinto che questa convulsa fase politica porterà a una ridefinizione del quadro partitico nel suo complesso e resto anche convinto che i problemi posti dalla globalizzazione non possono essere affrontati in termini di lotta di classe, ma piuttosto in termini di confronto tra territori omogenei.
Su questa base un incontro tra le tradizionali forze di ispirazione federalista del nord e la sinistra post marxista non solo è possibile, ma addirittura auspicabile.