In questo breve articolo mi propongo, senza particolari pretese, di sollevare l’attenzione sui legami tra federalismo, secessionismo e pensiero liberale e libertario. È stato proprio dallo studio della Scuola Austriaca che ho dato un fondamento alle mie convinzioni federaliste e indipendentiste, e credo che riscoprire la cultura liberale sia più che mai importante per dare forza a quella che considero una battaglia di libertà.
Quando pensiamo al mondo autonomista, federalista e indipendentista inevitabilmente associamo questa galassia di pensieri e idee a un grande nome: Gianfranco Miglio. Il “profesùr” per eccellenza, storico ideologo della Lega Nord, è diventato giustamente un punto di riferimento non solo per la sua lucida analisi dei fatti, ma anche per la completezza e il coraggio delle sue proposte che disegnano uno stato federale radicalmente diverso da quello centralista in cui viviamo. Miglio ha saputo mettere in luce le contraddizioni dello stato nazionale sorto in epoca moderna, ha saputo valutarne il declino e soprattutto, cosa non scontata anche per un grande pensatore, ha saputo proporre una coerente e strutturata alternativa. Se Miglio ci aiuta dal punto di vista politico è però naturale che i concetti di autonomia, federalismo e indipendenza possano trovare fondamento anche nella filosofia, e soprattutto in quella filosofia che si approccia all’economia. Non sono forse anche economici, oltre che storici, politici e identitari, i temi che più scaldano l’ animo dell’autonomista – federalista – indipendentista?
La cosa che accomuna sicuramente tutte queste diverse posizioni è una comune spinta verso la libertà: autogoverno e autodeterminazione sono senza dubbio tra i principi fondanti di qualunque libertà, e se si parla di libertà è difficile non pensare alla Scuola Austriaca di Economia, uno dei “templi” del liberalismo e del libertarismo moderni.
La visione rigorosamente libertaria dei pensatori austriaci porta ad una analisi approfondita delle istituzioni: quali istituzioni riescono a essere “meno coercitive” e più efficienti? Le risposte “austriache” sembrano convergere, pur partendo da percorsi diversi, con quelle di Miglio e dei grandi movimenti autonomisti e indipendentisti.
Il primo “austriaco” che potrei citare in relazione al concetto di autonomia è Friedrich Von Hayek: come afferma nella sua opera forse più famosa “La via della schiavitù”, “Comporta poca difficoltà pianificare la vita economica della famiglia, e difficoltà relativamente lievi si trovano nelle piccole comunità”. È convinzione di Hayek e della Scuola Austriaca che la conoscenza sia a disposizione di un numero altissimo di individui, e che i migliori risultati (e tralascio tutto l’aspetto del libero mercato come fonte principale di informazioni) si possano ottenere in termine di amministrazione, decisione e quindi di processo democratico quando l’individuo ha a che fare con ciò che conosce: tradotto in parole povere (e anche un po’ grezze rispetto alla finezza dell’intellettuale di cui stiamo parlando) è preferibile che a occuparsi di ciò che accade in Lombardia siano i lombardi, di ciò che accade in Calabria i calabresi e via dicendo. L’uomo, come Hayek afferma in una sua opera che è forse il più grande manifesto del pensiero liberale, “La società libera”, può agire meglio quando ha a che fare con
“problemi che, senza troppo sforzo di immaginazione, può far suoi e la cui soluzione egli può, con buona ragione, considerare più di competenza sua che di un altro”.
Il decentramento in qualunque ambito è quindi più che mai essenziale: in esso si concretizza la possibilità per l’individuo di decidere della propria sorte conoscendo l’ambiente che lo circonda.
Un altro grande della scuola austriaca si spinge oltre: Hans Hermann Hoppe parla addirittura di “secessione”, un termine caro a molti di noi, un termine che rievoca battaglie storiche e ideali mai sopiti. L’integrazione politica, ossia la tendenza accentratrice alla base dei moderni Stati nazionali, secondo Hoppe
“comporta una maggiore capacità per uno Stato di imporre tasse e di regolare la proprietà (espropriazione)”.
L’economista tedesco, che parla di questi temi nella sua opera “Democrazia: il dio che ha fallito”evidenzia (e già Hayek era giunto a questa conclusione) come uno Stato territorialmente più esteso, che controlli quindi un maggior numero di persone, possa avvalersi di un potere coercitivo maggiore e sia quindi capace di entrare con più irruenza nella vita delle persone. Analizzando le espansioni territoriali nella storia Hoppe afferma che
“Alla luce della teoria e della storia sociale ed economica, quindi, si possono ben sostenere le ragioni della secessione. (…) Comunque, la secessione di per sé ha un impatto positivo sulla produzione, perché una delle più importanti cause della secessione è che i secessionisti sono convinti che essi e il loro territorio siano stati sfruttati da altri”.
L’integrazione forzata (e l’unità d’Italia non fa eccezione) genera odi e conflitti, mentre una volontaria separazione va nella direzione opposta, ossia quella di una pacifica collaborazione e del libero scambio. Vi è inoltre una convergenza tra Hoppe e Gianfranco Miglio: entrambi sono convinti che un sistema federale o comunque di entità statali dalle dimensioni ridotte sia incompatibile con lo statalismo socialista, mentre la frammentazione politica (che Baechler riconosce come origine politica del capitalismo) favorisce il libero mercato e la libertà in generale.
Hoppe non dimentica nemmeno l’aspetto più culturale, evidenziando come i movimenti secessionisti costituiscano una difesa verso quelle particolari culture (in questo caso europee) che altrimenti finirebbero soppresse e dimenticate, schiacciate dal processo di omogeneizzazione imperante.
“La secessione incoraggia le diversità etniche, linguistiche, religiose e culturali, mentre nel corso di secoli di centralizzazione sono state soppresse centinaia di diverse culture”.
Hoppe è generalmente considerato come un eccentrico un po’ estremo, eppure aveva visto (e annunciato) il potenziale dei movimenti secessionisti in Europa e in Nord America. Oggi, mentre in Nord Italia la battaglia è in fase (speriamo momentanea) di stallo, in Catalogna e in Scozia i movimenti di massa chiedono l’indipendenza, e in Belgio la questione fiamminga è tutt’altro che dimenticata.
La scuola austriaca di economia raccoglie una serie incredibile di riferimenti a questo modo di vedere le cose: un gruppo di intellettuali che ha criticato lo Stato fino all’età radici delegittimandone la quotidiana invasione nella vita delle persone è un faro per il mondo secessionista e federalista. Ho voluto riportare questi frammenti (e mi ripropongo di raccogliere una visione più organica del rapporto tra austriaci e indipendenza) perché, prima ancora che un movimento politico, federalismo e secessione sono una tendenza alla libertà, contro ogni sopruso e coercizione. L’autodeterminazione dei popoli è necessaria per l’autodeterminazione degli individui, un processo senza il quale rischiamo di rimanere “schiavi di Roma” fino alla fine.