Con agosto muore il reddito di cittadinanza: un SMS ha annunciato alla maggior parte dei riceventi del sussidio che da agosto non lo riceveranno più, rimane solo per pochi, principalmente i disabili e i non occupabili, in attesa del nuovo strumento inclusivo del governo Meloni attivo dal 2024.
L’opposizione si è indignata, almeno in parte, sia per le modalità della comunicazione sia per l’effettiva eliminazione del sussidio, Conte parla di un possibile autunno caldo, a Napoli gli uffici vengono presi d’assalto e si organizza una manifestazione di protesta, qualcuno in Sicilia prova a dar fuoco all’ufficio del Sindaco…
Il reddito di cittadinanza, obiettivamente, nasce come misura grillina per il loro serbatoio elettorale, ossia il Meridione. Con le cifre offerte si poteva essere ragionevolmente sicuri, per quanto non ricchi, al Sud, mentre al Nord, specie nelle grandi città, era un sussidio largamente insufficiente. Inoltre, il reddito era anche pensato come misura di avviamento al lavoro e in ciò ha fallito miseramente.
Tuttavia, non si incolpi il Movimento 5 Stelle solamente, poiché il problema è sistemico. Il reddito di cittadinanza, al massimo, ce l’ha dimostrato con chiarezza.
Prima di tutto, l’Italia non è fatta per essere uno stato sociale. Già, in linea generale, emulando lo stato sociale le dinamiche solidali dei piccoli gruppi, più è locale, meglio è. Nel caso italiano, il paese è così diverso che non si può proprio avere un welfare unico senza che ciò non risulti profondamente ingiusto per alcuni o così ricco da rendere superfluo il lavoro altrove. Non facciamo, per piacere, battute sui meridionali che non vogliono lavorare: se vi arrivasse un Eurosussidio calibrato sulla Danimarca da 2000€ al mese andreste a lavoro per prenderne di meno e, con l’economia di oggi, magari non avere prospettive di crescita?
Oserei dire che, infatti, l’Italia non è uno stato assistenziale ma uno stato assistenzialista! Ma, soprattutto, uno stato assistenzialista ormai spolpato.
Qui c’è il secondo grave problema del welfare in Italia: anni di tentativi di implementazione assistenzialista hanno lasciato un paese poco produttivo, con un Sud più morto che vivo e un Nord che, per quanto sembri galleggiare, non è certamente un gran nuotatore nel mare d’Europa e pare destinato a peggiorare. Avere della ricchezza è condizione necessaria per redistribuirla, ma se sempre meno ne producono (e sempre meno!) e sempre più debbono dipendere dalla redistribuzione, il futuro del paese è decisamente negativo…
A questo punto, è chiaro che la priorità dovrebbe essere fondamentalmente ridurre il ruolo dello Stato, così che ad occuparsi dei propri vicini possano essere entità più vicine al cittadino come comune, provincia ed eventualmente regione, in modo più efficiente ed economico, e che il mondo dell’impresa e del lavoro possa creare ricchezza e prosperità.
Un esempio di come ciò sia possibile l’ho trattato anni fa qui, sul blog dell’Istituto Liberale. Eppure, le proposte della politica fanno acqua, tra chi ritiene che il welfare sempre così sarà e dunque tanto vale farsene una ragione, chi invece nonostante le enormi differenze (date anche dal welfare centralizzato) si indigna perché differenziare è sbagliato perché ci son le differenze (poi magari son quelli che vogliono la filosofia in ogni scuola perché insegna a pensare) e chi pensa che la soluzione ai problemi di produttività del Paese sia imporre un salario minimo, il che nella nostra situazione è come sostenere che una lunghezza minima del pene per coire possa aumentare le lunghezze medie dei peni.
Un paese del genere è profondamente perduto, quanto bisognoso di un welfare fatto bene. Che non arriverà mai.
Buona fortuna.