Gianni Fava analizza l’andamento dell’export lattiero caseario dall’Italia agli USA indicando nel “sovranismo” USA la causa prima dei dazi che minacciano di colpirlo.
A me pare che l’argomento faccia parte del più ampio e complesso problema delle reali barriere al libero scambio esistenti oggi nel mondo e dei loro effetti nel tempo ed attuali.
Provo ad esporre:
– Indicherei come punto di partenza il 1995, data di nascita del WTO, in sostituzione del GATT che dal 1948 regolava i rapporti di scambio fra i 76 Paesi via via aderenti: un altro mondo.
– Nel 2001 il WTO ammise la Cina.
– Da quel momento iniziò il sovranismo economico cinese che perdura.
– A causa di distorsioni in parte ideologiche e in parte di strategia della globalizzazione (il mercato potenzialmente più goloso del mondo per popolazione e per sperato, futuro incremento del reddito), la Cina fu ammessa a condizioni formalmente eque, sostanzialmente di favore.
– L’iniquità economica si rivelò immediatamente: il mercato internazionale fu invaso dai prodotti del “turbocapitalismo socialista cinese” che mette insieme tuttora due fattori opposti: il fordismo esasperato e il “socialismo di libero mercato”. Un modello che, in definitiva, coniuga il controllo verticale dell’economia con il controllo verticale della società.
– La Cina divenne rapidamente la “fabbrica del mondo”: fummo (e siamo) invasi da prodotti cinesi di bassa qualità ma a prezzi insostenibili che derivano da costi di produzione e di sistema non proponibili in occidente: costi del lavoro dieci volte più bassi, prestazioni di lavoro che non esiteremmo a definire schiavistiche, ove necessario dumping disinvolti, sempre remore e furbizie burocratiche applicate dalle dogane cinesi all’entrata di merci straniere, copie brutali e gratuite di prodotti e tecnologie occidentali, manovre monetarie disinvolte per tenere basso il rapporto monetario Yuan/dollaro e rendere ancor più competitive le merci cinesi anche per questa via, costi di sistema asimmetrici rispetto a quelli occidentali: ambiente, diritti civili, sanità, previdenza. Quasi tutti i presidi di sistema che appesantiscono dall’esterno dell’impresa i costi finali di prodotti e servizi occidentali sono ignoti in Cina. Vi si aggiungono altre disinvolture legali e tecnologiche specifiche il cui dettaglio si prospetterebbe troppo lungo.
– Gli USA e ancor più la U.E. (i due mercati più ricchi del mondo) presero una decisione di breve periodo: le merci cinesi avrebbero permesso prezzi al consumo più bassi e quindi più accessibili ai meno abbienti fra i cittadini statunitensi ed europei, quindi ben vengano: nel mio piccolo ne feci personali esperienze a Bruxelles cercando di spiegare, senza alcuna fortuna, all’allora Commissario alla Concorrenza, che il rischio era quello di decimare le imprese europee, creare disoccupati ed incapienti che non avrebbero avuto né i soldi per comprare i prodotti cinesi a basso prezzo né prospettive di reimpiego vista la decimazione delle nostre imprese e quindi dell’offerta di lavoro. Passò una soluzione di bassa visione economica tipica dei burocrati (e di molti politici): meglio l’uovo oggi che la gallina domani. E così fu.
– Analogo ragionamento fecero i Democratici in USA: la destabilizzazione industriale è visibile nei tristi capannoni in abbandono nella “rust belt” americana, in Europa ma soprattutto in Italia.
– A causa della contrarietà culturale all’industria, tipica del nostro Paese, tanto più se privata (cui hanno concorso i sindacati, il pauperismo cattolico, l’operaismo comunista, l’intellighenzia di sinistra, la magistratura politicamente orientata, la burocrazia asfissiante) la struttura industriale italiana è fatta da una rete di imprese medio/piccole che non hanno organizzazione, quantità di produzione e finanza atte ad affrontare il mercato globale. Soprattutto, anche se non solo, per queste cause l’industria italiana ne è uscita peggio di quella tedesca, dove il privato che fa impresa rispettando le regole è benvenuto, di quella francese dove il finanziere che investe in impresa è altrettanto benvenuto.
– Ne è uscita male anche l’industria USA che ha preso la via della delocalizzazione in massa e ha messo sulla strada milioni di colletti blu soprattutto nella “rust belt” (che poi hanno votato Trump).
– E siamo a oggi: a me pare che Trump abbia semplicemente preso atto dello stato dell’arte, quello dell’assimetria dei costi, delle furbate cinesi, del disavanzo USA nell’interscambio con la Cina. Coinvolge nella operazione il Canada che offre vantaggi fiscali vistosi, in tutto simili a quelli che in Europa offrono Irlanda, Olanda e Lussemburgo nel generale silenzio. Coinvolge il Messico per ragioni identiche a quelle cinesi. Cerca di riequilibrare la bilancia commerciale USA mettendo in moto sostanzialmente due misure: – gli incentivi alla riallocazione (reshoring) delle imprese americane in territorio USA, – i dazi sulle merci importate dalla Cina e in misura minore di Messico e Canada che si valgono della sorta di dumping di cui sopra. È sovranismo o legittima difesa? La questione mi pare quanto meno controversa.
– Nella manovra trumpiana si trovano fatalmente coinvolti gli altri soggetti internazionali, U.E., Italia compresa anche se ben poco colpevole.
– Per dire: ci siamo dimenticati i trucchi tedeschi sulle emissioni dei diesel WV, BMW e Mercedes? Le furbizie franco/tedesche sugli aiuti di stato ad Airbus (condannate non da Trump ma dal WTO a pagare oltre 7.000 milioni di € per danni indotti all’industria aeronautica mondiale, soprattutto alla Boeing americana). Colpiscono di rimbalzo il nostro settore agroalimentare: non ci entriamo niente ma paghiamo parte degli illeciti dei nostri partner europei. E non ce la prendiamo con loro ma con Trump.
– Per di più gli USA da sempre sono i maggiori contributori dei costi della NATO (cui appartiene anche la virtuosa Turchia!). I membri europei hanno beneficiato per decenni degli investimenti americani nella difesa. Da una parte mi sembra naturale che la potenza egemone paghi per la sua egemonia, ma dall’altra mi sembra altrettanto naturale che i beneficiari lo riconoscano. Sono miliardi di € all’anno che non escono dalle tasche degli europei ma escono da quelle degli americani. Per di più e dolorosamente i militari americani morti in giro per il mondo sono un altro contributo pesante che gli americani hanno pagato molto più degli europei, ma per missioni condivise. Gianni: lasciaglielo almeno dire!
In conclusione bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato che ognuno di noi da al termine sovranismo su cui è aperto un dibattito, soprattutto da quando la Lega ha spostato il proprio obiettivo dall’indipendentismo al federalismo, all’autonomismo, fino ad estenderlo a tutto il territorio nazionale approdando appunto al sovranismo.
Ma si può sostenere che l’indipendentismo non contenesse una ben maggiore dose di sovranismo e di seguito per federalismo fino all’autonomia? Verrebbe da dire: meno male che il sovranismo non è morto. Sarebbe più complicato cercare una difesa dei nostri valori e fors’anche della nostra declinante economia.
Note a margine:
Circa il termine Sovranismo: Enciclopedia Larousse: il sovranismo “sostiene la preservazione o la ri-acquisizione della sovranità nazionale da parte di un popolo…”
Circa la migrazione dei sindacalisti nella politica. Cito i più noti:
Fausto Bertinotti – sindacalista CGIL e iscritto al PSI, PSIUP, PCI, PDS e PRC Presidente della Camera dei Deputati (2006 – 2008) È stato segretario del Partito della Rifondazione Comunista (1994 – 2006)
Franco Marini – segretario generale della CISL presidente del Senato, ministro del Lavoro, segretario del Partito Popolare Italiano, parlamentare europeo e candidato a Presidente della Repubblica nel 2013
Guglielmo Epifani – Segretario generale della CGIL (2002 – 2010) dal 2013 è il segretario del PD
Sergio D’Antoni dalla dalla CISL all’UDC e successivamente al PD
Sergio Cofferati – dalla CGIL a sindaco di Bologna e Parlamento europeo per il PD
Ottaviano Del Turco – sindacalista area PSI, FIOM e CGIL ministro della Repubblica (2000-2001) e presidente della Regione Abruzzo (2005-2008) membro della direzione nazionale del PD.
Valeria Fedeli – da sindacalista CGIL a ministro del MIUR.
In totale i sindacalisti presenti nel 2008 (governo Prodi) erano 53 alla Camera e 27 al Senato.
Circa la migrazione dei sindacalisti nelle strutture pubbliche tralascio una ricerca più approfondita e cito solo il dato INPS: poco meno di 6.000 dipendenti, dirigenti, consiglieri sono sindacalisti.