L’Europa, anni addietro, era decisamente diversa: il concetto di Patria era ridotto, spesso al Comune o alle immediate vicinanze, la Nazione era poco più di un concetto geografico e gli Stati univano comunità largamente differenti.
Oggi, invece, gli Stati hanno un ruolo diverso, tira molto l’idea di stato nazionale e soprattutto i marchi contano, come non hanno mai contato.
Peccato che, fino a poco tempo fa, non fosse così e i nomi (ma anche le persone e le idee) giravano molto più liberamente. Pensate solo a “gulasch”, che indica una moltitudine di ricette che hanno in comune un certo trattamento della carne. Un guláš boemo non è decisamente un gulyás ungherese: adoro il primo, non sono un grande fan del secondo. Una volta ho anche visto un gulasch in scatola prodotto in Croazia al supermercato ma non ho avuto il coraggio di comperarlo, ma so che lo fanno anche gulasch in Tirolo e in Polonia, tutti parecchi diversi tra di loro.
Non è nemmeno l’unico esempio: in Svizzera, a Natale, si preparano i biscotti milanesini. Che a Milano, oggi, nessuno mangia. Semplicemente, pare che ci fosse anni addietro un biscotto simile a Milano, chi doveva nominare la ricetta elvetica l’ha chiamata così e bona, peccato che nel mentre sia scomparsa la versione lombarda. Per non parlare di polenta e osei: un dolce nella Lombardia orientale, un piatto di selvaggina in Veneto.
Questo pistolotto giusto per entrare nel dibattito sul tema Prošek. Ad esempio, l’Italia ha già perso il marchio “Tocai”. Ma era davvero necessario? Molto probabilmente quel nome, posto che le origini siano effettivamente ungheresi, è arrivato in Friuli quando era normale farlo. Nessuno si è messo a scopiazzare volutamente gli ungheresi per cattiveria, esattamente come i boemi non hanno derubato gli ungheresi della ricetta a base di carne bovina sopra menzionata.
La stessa cosa vale per il Prošek. Quella parte di Croazia fu governata da Venezia, è assolutamente possibile che il termine Prosecco, già esistente nel 1500, sia giunto nella zona e adottato con un significato simile, ma diverso, da quello originale. Tutto ciò, ripeto, senza malizia. Sia chiaro, Prošek può anche essere un termine slavo (è ad esempio un cognome ceco, diminutivo dell’equivalente di Procopio), ma il Rasoio di Occam suggerisce l’ipotesi veneta.
I croati si sono anche offerti di denominare il proprio vino esplicitamente come Prošek Dalmata, per fugare ogni dubbio.
Nonostante ciò, continua l’indignazione in Italia, come se tale denominazione fosse un vilipendio o sia stata inventata l’altro ieri per rubare spazio al vino italiano, nonostante in realtà sia registrata da tempo.
Questa cosa mi irrita soprattutto per una cosa: si arriva a dimenticare e a negare la storia. Accusare i produttori croati di copiare il nome, senza tenere in conto il loro retaggio veneto, è quasi offensivo. Offensivo specie se l’indignazione giunge da persone che dicono di essere attente a queste questioni storiche e identitarie.
Ma, soprattutto, non funziona l’applicazione della logica “un marchio uno Stato” per tradizioni nate quando lo Stato non era l’entità semidivina, corrispondente – a quanto dice – ad una comunità omogenea e unica, ma una cosa completamente diversa che, al massimo, corrispondeva al nobile del momento, e dove quindi le tradizioni culinarie erano libere di muoversi e mutare muovendosi.
E non penso abbia molto senso, onestamente, la logica di tutela del consumatore. Qui non parliamo di paragonare Prosecco e Proseco, venduto con immagini delle campagne italiane e annesso Tricolore ma prodotto nel sottoscala di zio Jan a Katowice con l’obiettivo di fregare qualche gonzo, parliamo di vini completamente diversi da un punto di vista organolettico, molto probabilmente venduti in scaffali separati in qualsiasi posto, sia per provenienza che per uso.
E francamente, se una persona confonde un vino frizzante orgogliosamente italiano con un vino da dessert orgogliosamente croato e prende quest’ultimo, è già tanto che non abbia preso l’alcol per pulire.
Soprattutto, per favore, non proviamo a costringere anche le tradizioni agroalimentari dei nostri e degli altri avi a sottoporsi ai criteri burocratici moderni. È vero che i conflitti non si risolvono più con le guerre ma tramite la giustizia UE, ma non sarebbe meglio non averne proprio?