La mia posizione – penso condivisa dalla gran parte del mondo identitario – sull’Emilia è ben nota: il Po è una divisione importante, ma da ambo i lati del Po è Lombardia. L’Emilia, d’altronde, è dichiaratamente un’invenzione post-unitaria, così ben pensata che avrebbe dovuto includere originariamente anche la Romagna: difficile identificarsi con una costruzione del genere se si tiene davvero alle identità locali, se non in forma molto blanda e subordinata ad un’identità di dimensione minore: non penso sia un mistero che l’identità emiliana sia largamente legata a cucina e istituzioni regionali. Si possono discutere alcune cose, ma se persino la storiografia italiana si riferisce all’Emilia dei Ducati come “Emilia lombarda”, qualcosa vorrà pur dire.
Tuttavia, noto nel movimento culturale lombardista, da ambo i lati del Po, una tendenza che non apprezzo: lo sminuire l’esistenza della lingua emiliana, provando a dire che si tratta solo di un “dialetto lombardo meridionale”, di sottoporla ad ogni costo al sistema linguistico presente al di qua del Po (letteralmente, “Lombardia al di qua del Po” era il modo di definire la Lombardia odierna, con l’Emilia che era la “Lombardia al di là del Po”).
Ma così non è: la lingua lombarda di dimensione regionale è l’opzione più sensata, visto che ci sono vari fenomeni unificanti che distinguono chiaramente questo insieme di dialetti da quelli vicini: si può disegnare un confine abbastanza realistico tra dialetti lombardi e veneti, tra dialetti lombardi e piemontesi, tra dialetti lombardi e ladino/romanci e tra dialetti lombardi ed emiliani. Esisteranno sempre realtà confusionarie, ma più si studia, più si raccolgono dati e più si applicano tecniche matematiche ai dati raccolti, meno saranno.
Tra l’altro, ne approfitto per analizzare anche questo argomento: l’Adda non è un confine linguistico. Lombardo occidentale e orientale sono macrodialetti della stessa lingua, ma l’Adda è decisamente permeabile: guardate queste cartine: quante volte Bergamo segue Milano e quante volte ci sono dialetti indubbiamente occidentali che, però, van dietro a Bergamo? Persino Wikipedia ha delle idee abbastanza semplicistiche su ciò che caratterizza il lombardo orientale: molti dialetti bergamaschi, ancora di più se andiamo indietro nel tempo, conservano eccome la “i” al posto della “e”, e, in altri dialetti, vi sono anche segni di un’evoluzione comune a vari altri dialetti occidentali: pensate a dove si dice “proeuma” per “prima”. Ecco, in alcuni dialetti occidentali c’è stata la medesima evoluzione, ma non c’è mai stata la trasformazione di /y/ in /ø/.
Mentre invece, studiando in maniera scientifica e metodica, è possibile trovare un confine non indifferente che corre vicino al Po: così ha fatto Daniele Vitali, uno dei massimi esperti di dialetti emiliani e romagnoli.
Insomma, a Reggio – un tempo di Lombardia – non si parla la stessa lingua di Milano, ma nemmeno a Piacenza, per quanto non pochi piacentini si identifichino di più con ciò che c’è a Nord che a Est.
E ciò è un problema? No, assolutamente no!
Pensate a cechi e slovacchi: sono popoli più diversi di quanto siano lombardi “transpadani” ed emiliani eppure sono diventati indipendenti insieme, hanno convissuto per anni, hanno utilizzato in contemporanea le loro lingue e si sono separati non per volontà popolare, ma politica. Nonostante la divisione politica restano popoli fratelli, ricordano i momenti – belli e brutti – vissuti assieme e sono ancora culo e camicia, per dirla in modo onesto.
Viene da chiedersi, quindi, perché concentrarsi su un’assimilazione culturale non necessaria – che può avere come effetto solo il rafforzamento delle identità regionali che tanto fanno comodo alla narrazione italiana del “20 (circa) identità regionali figlie di Roma e ottomila campanili, ma una sola patria” quando basterebbe parlare in modo sincero e onesto della nostra storia e della nostra vicinanza culturale, sociale, culinaria, architettonica e tanto altro per rafforzare i nostri legami e rendere il Po sempre più permeabile?