Corea del Sud, Giappone e Taiwan. Sono tre Stati democratici dell’Asia che hanno mantenuto sotto controllo il coronavirus, hanno un sistema sanitario sviluppato in grado di tracciarlo, un’osservazione indipendente di quanto accade e libertà di informazione.
Poi c’è la Repubblica Popolare Cinese. La stessa Repubblica Popolare Cinese che ha permesso per mesi la libera circolazione del virus, negandone prima l’esistenza, poi la pericolosità, il tutto per losche manovre di partito.
Poi, una volta fatto il danno, ha fatto le misure draconiane: è come uno che ti spara ma poi ti porta in ospedale.
Bisogna considerare, inoltre, come i dati cinesi siano quantomeno questionabili: in Cina non esiste libertà di informazione, se in Europa possiamo permetterci addirittura siti per il whistleblowing dei dati in Cina se il partito decide che in una zona dove non conviene avere un focolaio non c’è il virus semplicemente non c’è il virus.
Ma non dubito che la Cina, per quanto nasconda qualcosa, non sia in crisi sanitaria. L’Asia ha varie fortune, tra cui:
- Un uso più diffuso delle mascherine anche per le comuni sindromi influenzali, cosa sconosciuta in Europa
- Un igiene personale decisamente più elevata (cosa che ha influito pesantemente sugli ottimi risultati vietnamiti, che però soffrendo di una debole infrastruttura sanitaria difficilmente possono essere presi paro paro per veri)
- Una certa divisione tra anziani e giovani, in Corea e Giappone, e una bassissima percentuale di anziani, in Cina
- Una scarsa considerazione per la privacy, in una società molto paternalista e collettivista, dove lo Stato ha influenze che in Europa sarebbero considerate inaccettabili
- In molti stati avanzati si è scelto il sistema della mutua nazionale, che nella situazione asiatica si è dimostrato davvero capace di gestire una pandemia
Esiste quindi una bella differenza tra la situazione europea (con le sue varianti), dove la privacy è ritenuta sacra, è normalissimo mischiare (a livello ambientale) casa ed esterni, anziani e giovani vivono spesso fianco a fianco e i sistemi sanitari sono ormai orientati alla cura della terza età e la situazione asiatica dove mentre qui il governo diceva di non mettere la mascherina tutti già la avevano, esiste una separazione fisica tra casa e esterni (in stile genkan), ci si lava le mani appena entrati ed è relativamente normale non visitare i parenti anziani per lungo tempo, oltre ad installare ben volentieri app che, in Europa, sarebbero illegali.
Oserei dire, addirittura, che la Cina sia stata la peggiore a gestire la pandemia: ha combinato un disastro e ha poi preso misure durissime per rifarsi la faccia, mentre gli altri hanno gestito bene fin da subito e non hanno richiesto misure lontanamente dure come quelle cinesi.
Ciononostante un professore universitario italiano, Guido Saraceni, divenuto noto per una battuta e che da quel giorno ci dispensa le sue opinioni, in una (ormai classica) geremiade sul fatto che ci sono mille morti al giorno e laggiente pensa a divertirsi inneggia proprio a questo modello, parlando della (ridicola) bagarre interna del governo italiano sugli spostamenti tra comuni.
Già, in uno Stato liberale e democratico, dovremmo avere molti dubbi su un professore che inneggia a un modello non basato su principi democratici e liberali: pensate solo se un professore inneggiasse al modello economico di Hitler, al modello sociale di Mussolini o al modello industriale di Stalin: c’è gente che è stata crocifissa per molto meno.
Ma, posto quello che ho detto prima, per inneggiare al modello cinese ci sono solo due possibili ragioni.
La prima è la classica ignoranza. Non si conoscono i modelli asiatici di successo in Stati democratici. Probabile, dato che l’informazione italiana tende ad essere molto limitata sull’estero, ma che mal si confà a chi accusa a destra e a manca di analfabetismo funzionale e vorrebbe renderci edotti. Potremmo dire che certi ragionamenti sono più adatti al bar sport del paese che ad un serio dibattito universitario.
La seconda, invece, è la peggiore: la simpatia per un regime dittatoriale. Sarebbe, anche qui, davvero ironico da parte di chi per mesi ha gridato al pericolo di Salvini come se stesse venendo su letteralmente il Duce, ma valutando l’impianto generale da Stato etico – più vicino alle idee di Gentile che a quelle di Einaudi – dell’idea delle restrizioni come punizione per il divertimento, come se fosse compito dello Stato darci privazioni per compensare per le privazioni altrui.
Qualunque sia la possibilità, comunque, è triste che la classe accademica italiana, nel dibattito pubblico, venga rappresentata da chi inneggia a modelli degni di un regime fascista, non certamente amichevole con la libertà accademica.