Personalmente ho sempre considerato Spagna, Italia e Francia come il buono, il brutto e il cattivo.
Pur essendo tutti e tre stati nazionali unitari la Spagna, il buono, ha fatto un po’ di tutto per non sembrarlo, con un “quasi-federalismo” e una forte tutela delle lingue regionali, l’Italia, il brutto, esiste per pura fortuna storica e resta unita solo perché politicamente conveniente la redistribuzione interna ma, quando non si tratta di ricevere questi sussidi, nessuno si sente davvero italiano, la Francia, invece, il cattivo, ha essenzialmente dato origine all’idea stessa di stato nazionale, ha sempre avuto una struttura molto centralista e una distruzione sistematica delle lingue regionali che, in Italia, non si è vista nemmeno sotto il Ventennio, che chiudeva volentieri un occhio sull’uso del dialetto anche da parte di persone nell’apparato del Partito.
Però, le cose, stan cambiando: negli ultimi anni anche la Francia ha avviato una riforma regionalista e le lingue regionali hanno iniziato a godere di alcune tutele, come segnali bilingue e insegnamento scolastico facoltativo in alcuni istituti.
Sia chiaro, la Francia resta un Paese molto nazionalista, dove la politica praticamente inizia con l’equivalente di Salvini e va a peggiorare, ma i passi avanti sono stati significativi.
In Italia, però, ci si diceva che eravamo noi i migliori: né estremi come gli spagnoli che riconoscono questi dialetti addirittura come lingue e li usano nella vita pubblica, né estremi come i francesi che fanno una guerra aperta.
Ma, ormai, l’Italia sta diventando l’ultima ruota del carro: nelle scorse settimane la Francia ha approvato una legge a favore delle lingue regionali che ha creato polemiche e a porre la pietra tombale sul tema è arrivato nientepopodimeno che Macron, che ha dichiarato che dette lingue sono un patrimonio culturale dell’intera Francia.
Qui, invece, continuano con la sagra della disonestà intellettuale: i “dialetti” sono contemporaneamente vivissimi e quindi non necessitano di tutela e morti, quindi inutili da tutelare, sono mere varianti dell’italiano ma non bisogna parlarle perché incomprensibili agli italofoni… Insomma, una situazione artefatta, così artefatta che in Italia la linguistica non è, come nel resto del mondo, una scienza che si fa con i dati ma una sorta di disciplina umanistica iniziatica, dove si studia quanto prodotto fino all’era del nazionalismo, lo si eleva a Bibbia e guai a chi prova a contestare.
Capirete che non c’è grande possibilità di dialogo se uno usa i computer per fare calcoli sui dati dialettometrici e l’altro torna dalla biblioteca brandendo un testo del 1700 in stile esorcista…
La scelta francese si rivela, comunque, sensata: dopo anni di repressione le comunità di lingua regionale esistono ancora ma l’era del nazionalismo sta finendo, verso un’era in cui lo Stato è più un servizio.
In un contesto del genere ha decisamente meglio riconoscere e trattare bene queste comunità per far sì che considerino vantaggioso restare nello Stato e non ritengano necessario avere un Paese per la propria comunità nazionale.
Chissà se in Italia lo capiremo prima dell’implosione del Paese…